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 2016  febbraio 23 Martedì calendario

I treni dalla Cina e i soldi dall’Occidente: la rinascita dell’Iran

Il presidente Rohani è tornato dall’Europa con 55 miliardi di euro in contratti preliminari. Da qualche giorno le banche iraniane sono rientrate nel club Swift da dove mancavano dal 2012: potranno di nuovo inviare e ricevere pagamenti attraverso il sistema bancario globale. Il ministero dell’Energia ha fatto sapere che non aderirà all’accordo russo-saudita per congelare la produzione del greggio; vendere, vendere, è il mantra.
A chiudere il circolo da Oriente, la scorsa settimana è arrivato a Teheran, pavesato a festa, un treno partito 14 giorni prima dalla provincia di Zhejiang con 32 container; il primo convoglio della nuova Via della Seta che unisce Cina e Iran, con un risparmio di quasi un mese rispetto alle rotte tradizionali.
La «svolta»
Tutto fa pensare che nella capitale iraniana, immersa nella coltre irrespirabile del traffico esagerato, al di sotto degli Alborz spolverati di bianco (anche qui gli inverni non sono più gli stessi…) si dovrebbe sentire il rombo dei motori della ripresa economica. Ma la dispettosa complessità del mondo interconnesso non vuole saperne di semplificazioni: la risposta sintetica è un deludente «sì e no». Nessuno infatti prevede che l’impatto della «svolta» economica sulle elezioni parlamentari di venerdì sarà decisivo.
I filosofi oggi per farsi capire pubblicano libri di barzellette, perché allora non rispolverare una vecchia storiella zen? L’Iran è come un uomo (non sappiamo se buono o cattivo) caduto in una trappola per tigri. Fortunatamente riesce ad aggrapparsi a un cespuglio che penzola sulla fossa. Che fortuna. Guardando meglio, però, la sua situazione non è così felice. Sotto di lui una tigre caduta nella trappola si agita, ringhiando in attesa della preda. Diciamo che la belva ringhia proprio come un certo possibile candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti. Di più; due topolini, uno bianco e uno nero, stanno rosicchiando il ramo a cui è appeso. Tradizionalmente rappresentano lo scorrere del tempo, ma potrebbero anche essere gli irriducibili avversari regionali di Teheran: l’Arabia Saudita e Israele. Bene, al culmine dell’angoscia il nostro eroe vede vicino al ramo che lo sorregge una fragolina selvatica. La spicca e... com’è dolce!
Siamo a questo punto, con il Jcpoa (Joint Comprehensive Plan of Action, nel linguaggio esoterico della diplomazia, l’accordo sul nucleare raggiunto lo scorso anno a Vienna, in vigore da novembre) l’Iran sta gustando la sua fragola.
Nuove difficoltà
Il futuro prepara forse nuove difficoltà, anche se lo scenario è meno angusto di una trappola per tigri. Le sanzioni, si può dire, sono sparite a livello politico ma praticamente non è cambiato molto. Anche dopo lo sbandierato ritorno nello Swift, spedire denaro, poniamo, da una banca italiana a una iraniana è ancora impossibile. Scordatevi di venire in Iran per turismo con la carta di credito: in mani americane, il circuito internazionale è ancora ermeticamente chiuso. L’unica possibilità è andare in giro imbottiti di banconote, come spacciatori. I famosi «contratti» che il presidente Rohani ha portato dall’Europa sono stati malignamente definiti da un analista americano «lettere di entusiasmo». Come dire, meno che lettere di intenti.
Una serie di sanzioni americane precedenti alla crisi nucleare sono ancora in vigore e bloccano di fatto ogni cosa, anche contratti teoricamente permessi dal nuovo accordo. Un esempio? Adesso un’azienda aeronautica europea può vendere i suoi aerei all’Iran, ma, se nel prodotto c’è più del 10 per cento di componenti made in Usa, bisogna chiedere il permesso a Washington. L’erotismo del business tuttavia ha talvolta la meglio anche sull’intransigenza americana, come nel caso della Boeing. Di fronte all’assalto del mercato iraniano da parte dell’Airbus, l’azienda di Seattle ha avuto una deroga dal governo Usa per trattare con Teheran. «In Dollar we Trust». L’Iran punta sulle differenze (non molto grandi, in realtà) tra Europa e America, entrambi firmatari dell’accordo nucleare. Safar-Ali Karamati, vice direttore dell’industria nazionale del petrolio, ha appena proclamato che la priorità iraniana «è vendere il greggio in euro».
Si potrebbe metterla anche così: pessimismo della politica, ottimismo del mercato. Settantotto milioni di persone fanno gola a molti in tempo di recessione globale: un Paese dalle dimensioni della Turchia pronto a entrare nel club dei consumi. Una terra con la terza riserva mondiale di petrolio, la seconda di gas, prima per lo zinco, seconda per il rame.
Seduto all’ampia scrivania di mogano, con alle spalle i tetti della capitale che riempiono l’orizzonte, il direttore del dipartimento di analisi della Borsa di Teheran Hamid Moghadan spiega: «Prima della caduta delle sanzioni il nostro volume d’affari giornaliero era di 40 milioni di dollari, adesso è salito a 140. Il Tedpix, l’indice principale, è cresciuto in questo periodo del 20 per cento». Pochi giorni fa Oslo ha concesso il via libera al fondo governativo pensionistico (che vale 735 miliardi di euro) per l’acquisto di buoni dello Stato iraniano.
Non è solo l’intransigenza americana a frenare il boom annunciato: gli ambienti iraniani più oltranzisti vedono il business con l’Occidente come un possibile grimaldello per il famoso cambio di regime che le sanzioni (certo, qualcuno dirà che non era il loro obiettivo) non sono riuscite a ottenere. L’aumento e una maggiore diffusione del benessere rappresentano in fondo una sfida per il mondo degli ayatollah e una minaccia al loro potere. Ecco perché, attraverso interventi in tv e sui giornali conservatori, gli oltranzisti hanno criticato gli accordi siglati dal presidente Rohani in Europa. Il tenore degli attacchi è tutto nella dicitura della foto di un A-380 pubblicata dall’agenzia Fars: «In un momento in cui l’aviazione civile è usata solo dal 5 per cento della popolazione e il Paese è in recessione, bisogna chiedersi perché la prima importante mossa economica del governo sia di comprare degli Airbus».
Il piano di Khamenei

Ufficialmente, il futuro dell’Iran è contenuto nel piano strategico firmato dall’ayatollah Khamenei e intitolato: «Vent’anni di visione nazionale». L’obiettivo è far diventare il Paese la prima potenza del Medio Oriente entro il 2025. La Repubblica islamica vuole modernizzarsi restando fedele alla propria visione tradizionale. Sarà possibile? È comunque importante che il documento riconosca che quell’obiettivo potrà essere raggiunto solo con un’interazione positiva con il resto del mondo.