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 2016  febbraio 23 Martedì calendario

L’ottimista, il pessimista e il burocrate. Considerazioni sulla partita politica europea

Davanti a un bicchiere riempito d’acqua esattamente a metà, un ottimista (o, se si preferisce, un lungimirante) dirà che il bicchiere è mezzo pieno, un pessimista (o, se si preferisce, un miope) che è mezzo vuoto, un burocrate europeo che è riempito esattamente fino a metà. L’ottimista e il pessimista, spesso in modi opposti, si adopereranno per cambiare la situazione; il burocrate si limiterà a registrare il livello dell’acqua. Se il bicchiere è l’Italia, l’acqua è il bilancio pubblico e l’ottimista-lungimirante è Matteo Renzi; per i pessimisti-miopi c’è un’ampia scelta tra gli esponenti politici di primo piano dei paesi dell’Europa centro-settentrionale; i burocrati si trovano alla Commissione europea di Bruxelles.
La posizione burocratica qualche merito ce l’ha, in quanto pone tutti di fronte alle loro responsabilità pur senza trarne conclusioni. Così facendo, però, implicitamente delimita il «campo di gioco» ossia il terreno entro il quale ottimisti e pessimisti devono muoversi. E si dà il caso che questo «campo di gioco» sia pesantemente orientato in favore dei pessimisti. Conclusione: pur cercando di migliorare la loro posizione su un campo avverso, gli ottimisti devono adoperarsi per rendere più equilibrato il campo stesso, altrimenti è molto più difficile che vincano la partita. Il che potrebbe aprire la strada a conseguenze economiche durissime come insegna l’esperienza della Grecia.
Non fa meraviglia, quindi, che il documento sull’economia italiana che la Commissione si appresta a pubblicare – e dal quale può dipendere, in ultima analisi, l’eventuale avvio di un nuovo processo sanzionatorio contro l’Italia – descriva senza giudicare, illustri senza prendere posizione, esponga senza concludere. E quindi applichi in pieno la strategia del rinvio e della lentezza che normalmente si ritiene tipica della burocrazia italiana ma che forse – senza arrivare ai livelli italiani – è tipica di tutte le burocrazie.
Questo documento rappresenta un minuzioso «registro dei beni e dei mali» che, per un italiano, non presenta nulla di nuovo. Annota le riforme fatte e, tra le cose da fare, punta correttamente il dito su ciò che complessivamente definisce «recupero della competitività»: sulle riforme ancora incompiute, su un intreccio che comprende la disperante complessità dei percorsi burocratici italiani, l’inefficienza della giustizia amministrativa, la corruzione che aumenta i costi del settore pubblico. Di fatto il «non giudizio» del documento significa che all’Italia viene concesso ancora qualche mese per salire un’erta molto ripida e raggiungere la cima dell’accettabilità.
Il percorso suggerito non è irragionevole ma il suo costo politico è molto (troppo?) alto. E anche se giocherà questa partita, il governo italiano probabilmente svolgerà un’azione parallela volta a cambiare le regole, tanto più ora che la concessione di deroghe alla Gran Bretagna apre la strada a una generalizzata richiesta di mutamento.
In questo contesto deve essere letta la recente iniziativa del governo italiano di riunire i rappresentanti dei paesi fondatori che firmarono il Trattato di Roma nel 1957 per la preparazione di un progetto in grado di rilanciare l’unione politica aprendo la porta a un mutamento sostanziale delle regole attuali. Thomas Piketty, un notissimo economista francese, ha invocato, un mese fa, sul quotidiano «Libération», una serie di azioni comuni di Francia, Spagna e Italia – che rappresentano circa la metà sia della popolazione sia del prodotto lordo dell’Unione Europea – per realizzare, tra l’altro, la tassazione uniforme, in tutti i paesi dell’Unione, delle società multinazionali e un nucleo comune di norme di giustizia fiscale.
In questo quadro, l’iniziativa, prevalentemente tedesca, lanciata poche settimane fa, di un ministro europeo delle Finanze potrebbe anche funzionare, purché questo ministro, sempre per seguire Piketty, risponda a un «Parlamento della zona euro». La scelta del livello di deficit e di debito non dovrebbe essere determinata dal «Fiscal Compact», il trattato che per molti paesi sta diventando un capestro, ma essere oggetto di un consenso parlamentare. Con qualche limite, si potrebbe aggiungere; ossia senza andare oltre la «flessibilità» che il governo italiano con tanta insistenza richiede.
Il documento sull’Italia in questa prospettiva proprio non entra. È un prodotto dell’era in cui la macchina europea veniva guidata, con scarsissimi controlli parlamentari, dai funzionari europei. Quest’era ormai volge al tramonto e la politica europea deve entrare in campo.