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 2016  febbraio 21 Domenica calendario

Nei bistrot di Parigi con Marc Augé

Pare che l’origine del nome sia russo. Bistro, bistro Presto, presto! ordinavano nei caffè di Parigi i soldati dello zar Alessandro quando, nella primavera del 1814, occupavano quella che fino a qualche settimana prima era stata la capitale dell’immenso Impero costruito da Napoleone. Avevano fretta i cosacchi dello zar, forse per arroganza di vincitori, forse perché consapevoli della precarietà di ogni conquista, anche della loro. Ma di frettoloso, di rapido, i caffè parigini non hanno mai avuto nulla, se non, appunto, il nome. 
Il loro eroe è Maigret, con la sua pipa caricata di tabacco con mosse lente e studiate, mentre un vieux calva, liquore a cui le mele macerate a lungo hanno regalato una inconfondibile miscela di dolcezza e di aggressività, attende con pazienza di essere bevuto sul bancone rigorosamente di zinco. 
Nell’immaginario dei più esigenti, per gli intellettuali insomma, il commissario di Simenon può essere sostituito da Sartre, frequentatore puntuale, con Simone de Beauvoir, di quelle versioni sofisticate del bistrot all’angolo del quartiere che sono i Deux Magots al crocicchio di Saint-Germain o La Coupole a Montparnasse. Qualcuno spererebbe di trovarci ancora da qualche parte, lasciato su un tavolino in disparte da una misteriosa macchina del tempo Hemingway o magari Aragon, ma in fondo non importa. Perché, a guardar bene, l’eroe dei bistrot di Parigi siamo tutti noi. Siamo tutti noi i protagonisti indimenticabili di quei tavolini minuscoli dove, però, riesce sempre ad entrarci tutto: il nostro café crème, il giornale o il bloc-notes, brogliaccio di memorie che non scriveremo mai. Tavolini dove si sta bene da soli e si sta bene in due (non di più, se no diventa un’altra cosa e addio fascino..). Dove a renderti, appunto, indimenticabile ce la mettono tutta i camerieri (e le cameriere) che per qualche minuto sembrano non avere altra preoccupazione che quella di farti sentire uno che sta lì da sempre, un parigino secolare come la moquette usurata o la caraffa che, al pari di un vetusto baobab, mostra gli anelli di ripetuti e mal accuditi risciacqui.
Quegli stessi camerieri che a Marc Augé, travestito in questo delizioso testo da antropologo affettuoso di un quotidiano spesso inconsapevole, regalano, mentre egli si affanna a spiegare di essere lì solo di passaggio, un memorabile «Sono tutti di passaggio». «Osservazione –commenta Augé che mi rimetteva al mio posto, riaffermando il punto di vista di chi, fedele al posto che occupa dall’altra parte del bancone, ha modo di osservare tutti i giorni quelli che si immaginano di conoscerlo perché lo guardano senza vederlo».
Sopravvissuti ai furori di falangi di aspiranti poeti, all’addomesticamento di cineasti dalla facile retorica visiva, ad occupanti in divisa che ora parlavano in russo e ora in tedesco, i bistrot di Parigi, così ingenuamente pronti a mettersi all’aperto se l’aria è appena appena più tiepida, non finiranno crivellati dai kalashnikov di Daesh. Letta d’un fiato, come tutte quelle che la precedono, l’ultima pagina di questo libro, ne siamo più sicuri. Corriamo ad acquistare un biglietto per Parigi, senza dimenticare di passare da un elegante cartoleria, dove compreremo un quaderno altrettanto elegante, pronti ancora una volta, come dieci, come venti, come tanti anni fa, a cominciare a scrivere le nostre memorie, mentre arriva sul nostro tavolino un café serré e il cameriere ci sorride come se fossimo amici, anzi complici, da una vita.