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 2016  febbraio 21 Domenica calendario

Nella Parigi della bohème, con Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud e Verlaine

La Parigi di Festa mobile di Hemingway, oggi all’ultima moda nella capitale funestata dagli attentati, poggia le sue basi su una Parigi più antica, quella dei poeti maledetti, cui Stefano Biolchini dedica meritoriamente un sontuoso volume. Nata con il romanticismo, cui rimase sempre strettamente legata, anche quando sembrava rinnegarlo, la Parigi della bohème passa dal Quartiere Latino al villaggio di Montmartre per poi traslocare a Montparnasse. I poeti, da Baudelaire a Mallarmé, erano la schiuma dell’ondata di bohémiens che si mescolavano alla folla dei boulevard, disperati e sprezzanti, laceri ed eleganti. «Era di moda mostrarsi anormali», ricorda uno di loro. Non intendevano avere un aspetto rassicurante. «Avevano, notò Strindberg, i capelli lunghi, portavano cappelli a tesa larga, cravatte dai colori vivaci e vivevano come gli uccelli del cielo». Fumavano oppio e haschich. Si stordivano di etere e di liquori. I caffè erano i loro salotti. Malgrado fossero poveri, ci tenevano ad essere spiritosissimi a qualsiasi costo, ferocemente. Irridevano alla sensibilità, alle virtù, alla morale e alla religione. Tra loro si annidavano molti geni, ma non pochi erano destinati a perdersi e a consumarsi nei meandri della dissipazione e del vertiginoso odio per il loro tempo.
Baudelaire aveva rinnegato l’alta società frequentata dalla sua famiglia. Abitava all’Ile-Saint-Louis, un’oasi dentro la Senna, sopra una fumeria d’oppio. Era «un dandy sperduto nella bohème» che non aveva voluto rinunciare ai riti dell’eleganza e del contegno. Amava scandalizzare la gente enunciando enormità con un tono soave. I suoi Fiori del male, grondanti di sesso e di perversioni sembravano fatti per allontanare un pubblico ipocrita. Per lui il bel più destino era avere del genio e restare sconosciuto. Interamente vestito di nero compariva al Café Momus al 17, rue Saint-Germain-l’Auxerrois, dove ritrovava amici come Nadar e Courbet. Chi capitava per caso in quel locale pieno di fumo, racconta Murger, veniva preso in giro dai bohémien e costretto a fuggire prima di avere finito il suo caffè. Epater le bourgeois, sconvolgere i borghesi era la parola d’ordine di quei personaggi che avevano scelto di vivere ai margini di una società che disprezzavano.Verso la fine del XIX secolo Parigi era più che mai la capitale del divertimento
.Le bombe degli anarchici non riuscivano ad arrestare la corsa allo sciupio vistoso. L’ideale decadente dell’androgino confondeva deliberatamente i sessi. L’eccentricità e la perversione non bastavano mai alla sete di rivolta serpeggiante tra i bohémiens parigini. Per questo lo Chat-Noir, ai piedi di Montmartre, al 68, boulevard de Clichy era diventato rapidamente il loro punto di ritrovo e il loro portavoce. Irsuti e barbuti, qu ei fuorilegge intellettuali attirarono rapidamente la curiosità dei mondani. Yvette Guilbert, le braccia modellate dai lunghi guanti neri, intonava con voce aspra canzoni come : «Oh! Dolcezza della morfina! / La sua deliziosa frescura sotto la pelle / Si direbbe una perla sottile / Che scorre liquida sotto le ossa».I poeti maledetti ebbe nel 1884, malgrado il silenzio dei giornali, un rapido successo. Fare conoscere artisti come Mallarmé, Rimbaud, Villiers de L’Isle-Adam, poteva interessare solo una cerchia ristretta. Verlaine non sapeva che gran parte di quell’inspiegabile successo era dovuto al titolo, molto diverso da quello cui aveva pensato all’inizio, Les Incompris. L’idea dell’artista maledetto e del binomio genio e sregolatezza era nata dal romanticismo. Baudelaire aveva sintetizzato nell’Albatros: «Il Poeta assomiglia al principe delle nubi / che abita la tempesta e ride dell’arciere; Esiliato al suolo in mezzo alle grida, / le sue ali gigantesche gli impediscono di camminare». Per Verlaine, la maledizione scaturiva dal contrasto tra il genio dell’artista e il mancato riconoscimento della società. Ma sarebbe stato proprio Verlaine, lacero, sporco e ubriaco, a cambiare l’immagine del maledetto con la sua personale discesa agli inferi. «Sembrava – scrive un contemporaneo – un vinto dalla vita che prosegue la sua strada solitaria, disprezzato dal mondo e disprezzandolo a sua volta». Come i suoi compagni, i bohémien, non voleva un impiego o un reddito fisso, ma preferiva lasciarsi trasportare dalla corrente tra la miseria reale e la gloria sognata. «Passava – scrive Zweig – da un caffè all’altro pontificando e gesticolando, beveva e girava con delle prostitute». Per quegli scapigliati, essere veggenti voleva dire non limitarsi alla banale realtà, ma affidarsi alle onde impreviste del sogno e dell’incubo, alla luce spettrale della disperazione che sconfessava il desolante ottimismo dei riformatori. Ma ormai soltanto a tratti Verlaine si ricordava di Rimbaud, il suo compagno di baldorie e di vagabondaggi, che un giorno aveva annunciato: «Voglio essere poeta e lavoro a rendermi veggente... si tratta di arrivare all’ignoto attraverso lo sregolamento di tutti i sensi».