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 2016  febbraio 21 Domenica calendario

Gli attentati generano ansia ma è bene ricordare che è più probabile morire in un incidente. Analisi sulla percezione del rischio

Le analisi degli attentati, lo studio della psicologia degli attentatori (penso al lavoro di Scott Atran sui “valori sacri”) si rivolgono soprattutto a politici e decision makers, dovrebbero informare e influenzare la decisione collettiva: scelte di politica interna ed estera, di istruzione pubblica, di politiche sociali. Non ci sono invece vere e proprie politiche rivolte ai cittadini, a parte qualche gesto poco più che simbolico, come certi pannelli con le istruzioni a fumetti per il comportamento da tenere in caso di attentato, affissi nei luoghi pubblici in alcuni Paesi accanto alle norme antincendio. Con differenze culturali di non poco momento: al francese «fuggire, nascondersi, segnalare» fa da contrappunto un assai più sanguigno «fuggire, nascondersi, combattere» statunitense. Senza esercitazioni, questi pannelli sono però soltanto decorativi; le routine psicologiche della paura intervengono nelle situazioni di pericolo, bloccano il comportamento e la valutazione della situazione. Come fanno i marinai nel caso dell’uomo in mare, ci si dovrebbe esercitare periodicamente alle emergenze. Ma vale anche la pena di chiedersi quanto investire su questo problema. 
Gli attentati di varia natura e matrice ci accompagnano da decenni; potete utilmente guardare le varie liste disponibili su Wikipedia. Sono vicini alla nostra vita. Per chi, come me, ha vissuto nell’Italia degli anni ’60, ’70 e ’80 facevano parte di una quotidianità violenta, scandita da stragi (Piazza Fontana, Italicus, Bologna, Brescia), ma soprattutto punteggiata da centinaia di atti individuali più o meno mirati (si veda il bel libro di Luigi Manconi, Terroristi italiani, Rizzoli, 2008), “gambizzazioni” – il termine usato per un certo tipo di ferimenti, la cui vittima più illustre fu il giornalista e scrittore Indro Montanelli – e omicidi i cui motivi mescolavano confusi schemi ideologici, ritorsioni personali, e anche criminalità comune. In Francia negli anni ’90 abbiamo avuto la fiammata del GIA; altra modalità, come bombe in luoghi pubblici e nei mezzi di trasporto; il “piano Vigipirate” scattò in quell’occasione ed è sempre stato attivo da allora. Se ci recavamo a Londra ci erano familiari gli annunci di interruzioni del servizio nel metrò conseguenti a segnalazioni vere o false di pacchi bomba dell’IRA. Ero a New York nel settembre del 2001: il salto di qualità dell’attentato; il bersaglio di massa e altamente simbolico esisteva già ma si è saliti di un ordine di grandezza; la banalità dello strumento, un cutter, che aveva permesso agli attentatori di trasformare aerei in bombe. E poi ancora Parigi, con modalità ancora nuove, squadre di giovani più o meno addestrati a usare armi automatiche che sparano alla redazione di un giornale satirico, ai clienti e ai lavoratori di un supermercato cacher, nelle strade e in un teatro; e a far da contorno uno sciame di atti di violenza individuali, ambigui. Questa seppur parziale storia di vicinanza all’attentato è oggi relativamente banale, condivisa da decine di milioni di persone.
Che cos’è un attentato? Svariati commentatori si concentrano sulla natura degli obiettivi, caricando questi ultimi di valenze simboliche che renderebbe evidenti la loro scelta. Le Torri Gemelle, d’accordo. Ma a ben guardare è facile trasformare tutto in un simbolo, col senno di poi. Abbiamo avuto attentati contro i giornalisti (la libertà di stampa), attentati contro i ristoranti (quindi contro i bobo, i borghesi-bohémiens), in stadi e teatri (i templi del divertimento della società occidentale; la gioventù), contro la polizia e i militari, giudici, uomini politici, magistrati (il potere); su treni, aerei, metropolitane (libertà di movimento), siti turistici (il turismo), siti culturali (la cultura e l’arte); in luoghi di culto (la libertà religiosa), contro scuole (la conoscenza) e ospedali, contro individui di una data religione (l’antisemitismo). Attentati a Parigi, Londra, New York (le grandi città), ma poi anche a Sacramento (le piccole città). E via dicendo. Non è possibile trovare un comun denominatore concettuale. Per esempio, gli ultimi attacchi individuali registrati in Francia, all’arma bianca, fanno assomigliare l’attentato al gesto opaco di molti shootings statunitesi; ma ne riparliamo tra un attimo. Per il momento direi che queste letture di un attentato siano assai sovente intrise di cose cui piace pensare per futile esorcismo – magari non andiamo a teatro spesso, o non prendiamo mai l’autobus, o non siamo bobo, o viviamo in provincia di Enna, per dire: il problema sembrerebbe di altri. Invece gli attentatori colpiscono come possono, con un certo opportunismo, mirando a far danno massimo rispetto ai mezzi a loro disposizione, e con una fin troppo facile, sinistra creatività. Gli obiettivi sono a volte spettacolari? Comunque ogni attentato diventa – purtroppo – spettacolare. Dobbiamo registrare il fatto che ogni obiettivo è buono, e che in tutte le società umane c’è una riserva assolutamente inesauribile di obiettivi. Nella città dove vivo, ci sono centinaia di scuole, 14mila attività commerciali, 80 mercati pubblici, una pletora di monumenti: ma dove non c’è qualcosa da distruggere, nel mondo?
Per ragioni che saranno chiare tra un momento, esito sempre a parlare di “terrorismo”. Parlerei piuttosto di violenza ideologica, ovvero motivata da idee e non da scopi retributivi come in una rapina, o da motivi personali come in una vendetta. C’è poi un effetto eco. Svariati atti di violenza, più o meno memorabili, hanno preceduto o seguito gli attentati parigini dell’ultimo anno. Se gli attacchi del gennaio e del novembre 2015 sono chiaramente il risultato di un’azione concertata, la cronaca ha registrato una dozzina di vittime e molti più feriti in accoltellamenti, sparatorie e auto lanciate contro gruppi di persone in Francia nello stesso periodo. Si è trattato prevalentemente di azioni imputabili a individui isolati, che non prendevano ordini da nessuno. Che cosa succede qui? Lo scrittore Stephen King, esprimendosi pochi giorni dopo l’undici settembre, aveva fatto una previsione semplice: «And now that crazos the world over see that it’s possible to get 72 hours of uninterrupted air time on a budget, it will almost certainly happen again». (Elements of Tragedy: The Weapon, New York Times, 23 settembre 2001. http://www.nytimes.com/2001/09/23/magazine/the-way-we-live-now-9-23-01-close-reading-elements-of-tragedy-the-weapon.html)
Crazos, fuori di testa. E difatti, confermando l’effetto eco, nell’anno dopo le Torri Gemelle due aerei erano andati a schiantarsi deliberatamente contro dei grattacieli, in Florida e a Milano. Nel secondo episodio nostrano si ebbe a che fare con un probabile suicidio eclatante (un modello che venne reincarnato a Austin nel 2010), nel primo con l’atto di un quindicenne che lasciò una nota confusa inneggiante a Bin Laden. La costellazione di azioni violente che fanno eco a un certo attentato è deprimente. Ci parla di persone che probabilmente si sarebbero comunque suicidate e che trovano un supplemento di motivazione in quella che sembra loro essere una causa; supplemento che unisce inutilmente la propria sofferenza al danno inflitto ad altri. Anche di persone così, come di obiettivi per le loro azioni, non c’è purtroppo penuria.
Che cosa è veramente cambiato, nelle nostre vite? La società si è fermata? Non si direbbe; va avanti come un treno. Siamo diventati più poveri? Se sì, non si direbbe che questo dipende dagli attentati. L’Islanda ha fatto bancarotta, e la Grecia è dove è, per tutt’altre ragioni. Siamo diventati una società meno libera? Un pochino, ma è significativo? E quando è significativo, dipende dagli attentati? Il controllo totale della Rete da parte della NSA e di altre agenzie governative viene giustificato come politica antiterroristica, ma ci stupirebbe molto se un’agenzia di spionaggio non cercasse di mettere comunque le mani sulla rete, avendone le possibilità tecniche: l’occasione fa l’uomo ladro. Abbiamo creato delle barriere intorno alle comunità da cui si presume provengano gli attentatori? Il metro quadro intorno alla grande moschea di Parigi nel quartiere latino non è dei meno cari. Abbiamo cambiato il nostro comportamento giorno per giorno? Ma come potremmo? Gli economisti Rubinstein e Becker avevano dimostrato empiricamente che dopo un attentato su un mezzo pubblico chi non viaggia più con un mezzo pubblico è chi può permetterselo; per un certo periodo accompagna i figli a scuola in auto. Gli altri, che non hanno scelta, non cambiano il modo di vita. E comunque, abbiamo davvero più paura?
Nel caso degli attentati, mi sembra che la reazione predominante dell’opinione pubblica non sia – né possa essere – la paura. La paura è una condizione fisiologica ben precisa, che dipende dalla percezione di un pericolo imminente nell’ambiente circostante; inibisce per aiutare a passare inosservati, o prepara all’azione, alla fuga. Ancor meno abbiamo a che fare con terrore, una paralisi patologica del comportamento in seguito alla paura. Le vittime di un attentato, i testimoni, possono provare paura. La reazione generale è invece di ansia, una preoccupazione diffusa per noi e per i nostri cari, che magari ci toglie il sonno, occupa i nostri pensieri in modo a volte ossessivo, ma non ci fa fuggire (dove?) e non ci paralizza.
Mi pare che dovremmo trovare un’altra parola, ridefinire i terroristi come generatori di ansia, non di terrore. Se il loro obiettivo vero non sono soltanto le vittime delle loro azioni, ma la popolazione nel suo complesso, non stanno né terrorizzando né impaurendo la popolazione. Che cosa stanno facendo alla società? La stanno soltanto scocciando. L’ansia – e misuro con attenzione le parole – è soprattutto una enorme scocciatura, un vincolo supplementare sulle nostre vite, un “doverci pensare”; come diceva Ralf Dahrendorf, gli attentati sono punture di spillo. Certo, dobbiamo pensare anche a questo, ai nostri figli che prendono il metrò da soli, a localizzare le uscite di emergenza in un teatro, a convivere con un pensiero che ci ripete che la nostra vita è a rischio.
Non dimenticando però che la nostra vita è comunque a rischio. Il problema è il rapporto tra il peso reale del rischio e la valutazione che diamo di questo peso; questi fattori condizionano le nostre decisioni, e in definitiva le nostre azioni. Sappiamo che il rischio di perire in un attentato è infimo rispetto a quello di morire in un incidente stradale. Nel 2011 sono morte 30mila persone in incidenti stradali nell’Unione Europea. 82 al giorno. Più di una persona ogni venti minuti. Se ho aperto l’articolo su una lista di attentati cui sono passato più o meno vicino, senza che per fortuna nessuno dei miei cari vi sia mai stato implicato, dovrei a questo punto evocare l’ecatombe di amici, parenti e conoscenti sulle strade. Non solo parlare di statistiche, ma raccontare le loro vite, il vuoto che hanno lasciato. Dico questo non per proporre un paragone che di per sé è piuttosto ozioso: il rischio è rischio, la vita umana non ha prezzo ed è insostituibile. Il comportamento individuale è invece modulabile; in particolare possiamo descrivere in molti modi diversi quello che ci capita in modo da agire in modo diverso, e allora perché non farlo? Pensate alla situazione seguente. John Smith si vuole suicidare. Ma ha scelto una strada strana: vuole prendere il prossimo aereo che avrà un incidente (senza provocarlo lui, l’incidente). È un’idea irrazionale, la probabilità di successo è bassissima. Se non lo fosse, nessuno prenderebbe un aereo. Raccontare a se stessi il rischio come possibilità di suicidio cambia la percezione del rischio.