Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 21 Domenica calendario

Il rock ai tempi dell’Unione Sovietica. Storie di musica oltre la cortina

Sulla corriera verso Mosca la nostra guida – riduttivo chiamare «guida» una così perfetta macchina di partito – ci riconsegna i passaporti, uno a uno, mostrando di aver già imparato a memoria nomi e cognomi di tutti. La conosciamo da un paio di minuti, noi siamo una cinquantina di persone tra musicisti, tecnici, istituzioni. Lei fissa ognuno negli occhi con il documento in mano, senza guardare mai le foto. «Gianni Maroccolo», allunga la mano. «Piero Pelù». Senza mai sbagliare. «Giovanni Lindo Ferretti». Meraviglie dell’educazione sovietica. All’arrivo alla location del concerto, il Palazzetto Sovin Senta, ci raccontano che il promoter della serata sarà un mafioso georgiano. Non abbiamo difficoltà a crederlo per come si presenta acconciato e come si dà da fare: urla, lecca, gesticola, non molla mai il microfono, presenta tutto e tutti, tocca e abbraccia, nessuno riesce a mandarlo via dal palco. Per lui siamo soltanto un pretesto per far risaltare il suo gruppo, una band metallara russa, unico gruppo metallaro sul pianeta a esibirsi in playback integrale, con urla in falsetto e assoli di chitarra preregistrati. Sognano altre latitudini, con evidenza, le loro canzoni e gli abiti di scena – capelli lunghi, vestiti smodati, pantaloni a righe bianche e nere – confermano tutto lo stantio che ci si aspetta da un gruppo dell’est Europa.
In tutto questo, cominciamo a sentirci a nostro agio. Perché il nome del nostro gruppo è Cccp Fedeli alla Linea. Veniamo dalla provincia più rossa dell’intero mondo occidentale, Reggio Emilia, ci siamo formati nella Berlino del Muro sotto l’impero di Brežnev e, tornati a casa, non avremmo potuto definire la nostra musica altrimenti che punk filosovietico. Quando tocca a noi suonare, non ho il coraggio di sollevare lo sguardo perché sento, lo sento, che a uno a uno i militari sulle tribune si alzano in piedi scalpicciando. Si crea un cortocircuito paradossale in questo palazzetto dello sport moscovita dove io sto suonando l’inno sovietico con la chitarra elettrica, Gimm Sovetskogo Soyusa, il loro inno nazionale; e Ferretti sta salmodiando A ja ljublju Sssr, «amo l’Unione Sovietica», che è quello che loro dovrebbero cantare; e dove la benemerita soubrette Annarella e l’artista del popolo italiano Fatur si stanno contorcendo seminudi sul pavimento, tra ferraglia comunista, falci e martelli, bandiere strappate, matrioske cubitali. Le loro bandiere. Le loro matrioske. Che cosa vedono quei soldati dell’Armata rossa che sentono di doversi sollevare sull’attenti davanti a noi? Un gruppo punk occidentale, certo, decadente e casalingo in misura imprevedibile. Mai sentito parlare dell’Emilia rossa probabilmente, eppure siamo qua, pienamente speculari, in un tempo imprevedibile, quello della glasnost gorbacioviana, 1989. L’impero è al termine. Siamo a un funerale pubblico, più che a un concerto.

Uno sguardo più approfondito a quel mondo che noi abbiamo soltanto potuto sfiorare lo rivolge invece Alessandro Pomponi, autore di Rock oltre cortina, un viaggio appassionato nell’universo giovanile nei Paesi satelliti del Patto di Varsavia: Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Bulgaria, Romania, Germania Democratica. Là dove una sorprendente vivacità di gruppi e artisti attraversa tutti gli stilemi musicali dell’epoca tra eroismi individuali, compromissioni, speranze, astuzie, patteggiamenti in un braccio di ferro con un potere che quasi nulla consente. L’autore segue l’intensa – quanto inutile – opera di dissuasione da parte governativa attuata sia con misure platealmente poliziesche che con forme apparentemente igieniche, come gli esami attitudinali presso commissioni ministeriali davanti alle quali era d’obbligo presentarsi con «il vestito buono e pettinati per bene, interpretando due o tre brani del tutto composti e misurati che non dessero scandalo, nella speranza di essere accettati» per ottenere il nulla osta al lavoro. Niente di troppo diverso peraltro – suggerisce Pomponi – dalle commissioni Rai, il cui verdetto «idoneo/non idoneo» incarnava per un cantante nostrano la possibilità di affermarsi. E ancora: censure tecniche, come la scomparsa improvvisa degli ingaggi, l’impossibilità di registrare o ristampare le proprie canzoni su vinile, condanne di fatto a restare invisibili, inesistenti. Fino ad arrivare a operazioni sporche, come nel caso capitato alla cantante ceca Marta Kubišová, messa a tacere grazie alla pubblicazione di sue false foto pornografiche.
Esistono vie di fuga: le radio sintonizzate su frequenze occidentali, i ritrovi clandestini, Lp e cassette importati illegalmente, o i «Gitarrengruppe» della Ddr, indagati ma tollerati dai servizi segreti della Stasi nonostante il taglio dei capelli «alla Beatles», le giacche di pelle e i jeans a campana, i balli composti da «contorsioni non ordinate», perché nella loro musica privilegiavano l’espressione musicale rispetto al testo scritto, giudicato pericoloso dalle autorità. Fino a episodi leggendari, come la fuga a occidente dei musicisti della band romena Phoenix, nascosti nei loro amplificatori Marshall.
«Siamo dissidenti al di là della nostra volontà», parola di Plastic People of the Universe, imprendibile gruppo anarchico underground di Praga. Tra i suoi sostenitori più assidui un giovane drammaturgo che arriverà a offrire la casa di campagna come loro studio clandestino. Václav Havel era quel giovane, futuro presidente cecoslovacco e, dopo la secessione della Slovacchia, ceco. Tutte storie completamente sconosciute in Italia, dove nessuno ricorda il passaggio al Cantagiro ’69 del polacco Czeslaw Niemen che giunge perfino a sfiorare il festival di Sanremo, da cui verrà escluso per mai chiariti «motivi sindacali».

Ma l’autore non si accontenta di equazioni facili che hanno come termini unici l’oppressione statale e la ribellione artistica; il suo racconto è ben inserito nell’ansia di liberazione dell’intero status giovanile europeo di quegli anni, e contestualizzato puntualmente nel segmento storico. Uno sguardo a quell’oltrecortina che nessuno può liquidare come banalità musicale; non in questo nostro Paese che in quanto a scimmiottamenti anglo-americani non teme confronti con nessuno. Solo un Comune con la vista acutissima come quello di Melpignano di Lecce avrebbe potuto inventare nel lontanissimo 1988 un gemellaggio con realtà simili, organizzando il festival Le idi di marzo. Meeting delle nuove sonorità dei Paesi dell’Est, tramite il quale invitare nel Salento i moscoviti Igre e Televizor, gli estoni Justamen, i Sekret (tre milioni di copie vendute in patria), i New Collection. Perestrojka, disgelo, aria nuova in arrivo: il manifesto della rassegna vede il segno rosso di un bacio sulla guancia di Gorbaciov.
La primavera successiva, sempre grazie a Melpignano, verranno invitate a esibirsi in Unione Sovietica le eccellenze del rock italiano: Litfiba, Cccp Fedeli alla Linea, Rats. Un concerto a Mosca di cui abbiamo già riferito, fatto su misura per rampolli benestanti e soldati dell’Armata rossa. Uno a Leningrado, per i ragazzi del Rock Klub, al palazzo della cultura. Tira aria d’Europa, a quel nostro concerto a Leningrado. Niente mafiosi georgiani, un bel locale d’atmosfera nordica, organizzato, povero, caloroso. L’impianto barcolla, il pubblico pure. Quando noi attacchiamo il nostro set, dalla platea lanciano un urlo: «Cccp! Sssr! Emilija Parranuoica !». La nostra Emilia Paranoica è diventata loro. Impareremo che è stato il presidente del rock club dei Monti Urali a lanciarlo, un ragazzone con l’eskimo che avremmo potuto incontrare a Bologna come a Reggio Emilia come ovunque. Suoniamo, simpatizziamo, ci riconosciamo simili, almeno per una sera. Una manciata di mesi più tardi verrà sbriciolato il Muro di Berlino, e tutti avremmo appreso che il mercato e l’imbecillità sono avversari ancora più infami di un mondo che osava definirsi politico.