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 2016  febbraio 21 Domenica calendario

È stato inventato una sorta di motore di ricerca della nostra memoria, per sconfiggere la sindrome da «punta della lingua»

Siete mai entrati in una stanza per prendere qualcosa e dimenticato perché eravate lì? O, nel mezzo di una conversazione, dimenticato un nome, un numero, quello che volevate dire? È la sindrome da «punta della lingua», e ne soffriamo tutti. La sensazione di essere a un passo dal ricordare qualcosa senza di fatto ricordarla. Ma che cos’accadrebbe se, in quello stesso istante, una tecnologia, un assistente cognitivo digitale, intervenisse a sussurrarci il dato mancante direttamente nell’orecchio?
Non proprio fantascienza. In una nuova richiesta di brevetto, il neuroscienziato computazionale James Kozloski, inventore presso Ibm Research, descrive le applicazioni di una tecnologia che definisce il «motore di ricerca della nostra memoria». Un Google automatico della nostra mente, wi-fi e armato di sensori, che monitora conversazioni, azioni, immagini, prevede le intenzioni e offre supporto nel momento del bisogno. Dove ho messo gli occhiali? Dove ho già visto quella foto? Basta «googlare», e non dobbiamo neanche farlo noi. Utilizzando strumenti quali il monitoraggio continuato, l’apprendimento delle macchine e un algoritmo predittivo noto come inferenza bayesiana, l’assistente cognitivo digitale rileva quando e cosa dimentichiamo, fornendo in tempo reale l’informazione necessaria.
Va da sé che l’impiego più significativo di questa tecnologia sarà per il contrasto a malattie neurodegenerative, come il morbo di Alzheimer. Un assistente cognitivo digitale può ricordare al paziente di assumere un farmaco all’ora stabilita, aiutarlo a non perdere appuntamenti e visite, a vestirsi, cucinare in sicurezza, interagire con il prossimo. Di più: monitorerebbe il declino cognitivo del malato per comunicarlo a chi lo segue. Dimentica qualcosa più frequentemente? È una funzione motoria o di memoria? Si allontana dalla propria routine? Addirittura, l’intelligenza artificiale preverrebbe effetti collaterali di smemoratezze in altri casi innocui, come la confusione e l’agitazione del paziente.
Ma una memoria «googlabile», osserva Kozloski in un colloquio con il magazine della Singularity University, partner del Nasa Research Park della Silicon Valley, aiuterebbe tutti. Non solo nelle dimenticanze quotidiane causate da ansia, stress, stanchezza, ma facilitando collegamenti innovativi e riflessioni più profonde, fungendo da supporto nei momenti di attività intellettuale intensa, come una sessione di brainstorming. Le scuole, forse, dovrebbero vietarla durante gli esami, ma per il nostro cervello, che consuma immense energie senza far nulla, sarebbe un aiuto validissimo, specie nei ritmi frenetici di oggi.
Se l’idea di un monitoraggio tanto invasivo vi lascia perplessi, sappiate che di fatto già succede: siamo già continuamente controllati dai nostri dispositivi. Dal contapassi al cardiofrequenzimetro, c’è un braccialetto Fitbit o altra tecnologia indossabile per qualsiasi esigenza. Le app della realtà aumentata ci aiutano a ritrovare l’auto se non ricordiamo dove l’abbiamo parcheggiata; i termostati intelligenti rilevano quando ci spostiamo da una stanza all’altra; le telecamere stile Minority Report sono in uso da anni in città come Chicago e Washington per individuare i comportamenti anomali. Altre app tengono nota dei nostri impegni e appuntamenti, offrono traduzioni in tempo reale e un ventaglio di risposte. E tutti questi dispositivi sono sempre più sofisticati; e personalizzati. Che cosa cambierebbe a impiantare un assistente cognitivo nel braccialetto Fitbit, o nel diffusore Bose?
Hogewey, alla periferia di Amsterdam, ora modello per insediamenti simili in Florida e Ontario, è una casa di cura mascherata da paesino per malati di demenze – con giardini, supermarket, un teatro, l’ufficio postale e ristoranti. Qui non ci sono reparti né corsie, ma case arredate nello stile del periodo in cui la memoria a breve del malato ha smesso di funzionare. Qui i 152 pazienti passeggiano in sicurezza per le strade e conducono vite pressoché normali senza sentirsi in ostaggio, ma telecamere nascoste li monitorano 24 ore al giorno, insieme a 250 medici e infermieri travestiti da commessi, garzoni e fattorini (qualcosa non molto diverso dal Truman Show ). Ora, se tutti questi dati e altri ancora, uniti a quelli ambientali, venissero forniti all’assistente cognitivo digitale, questo potrebbe sviluppare modelli personalizzati di pensiero e di comportamento. Analizzando sequenze di parole e schemi di linguaggio saprebbe rilevare, per esempio, se ti trovi in un contesto di lavoro o familiare, individuare la persona con cui stiamo parlando, suggerire alla prima esitazione la risposta che più probabilmente avevi in mente in base a conversazioni registrate in precedenza.

Immagina, ad esempio, di chiamare un amico che non senti da un po’. L’assistente cognitivo rileverà il numero composto, riconoscendo subito la persona chiamata. Poi scansirà il database in cerca di precedenti interazioni, a voce o via sms, social e chat, e le informazioni in esse contenute. E attraverso un auricolare Bluetooth o un messaggio al cellulare, ti ricorderà come l’ultima volta che avete parlato stava per iniziare un nuovo lavoro, sottoporsi a un check-up, che sua moglie si chiama Mariasole e lunedì è il suo compleanno. Tutti questi dati caricati e pronti all’uso, prima ancora che il tuo amico risponda, solo nel caso in cui tu abbia bisogno di un amichevole reminder.
Non mancano gli scettici. Se remore legate a sicurezza e privacy possono essere risolte facilmente configurando l’assistente cognitivo affinché condivida i nostri dati solo con chi vogliamo noi, gli stessi dubbi sorti con l’«effetto Google» e il suo essere il nostro hard drive esterno potrebbero avanzarsi oggi per chi usasse la nuova applicazione. «Google ci rende stupidi», tuonavano un paio d’anni fa esperti da Harvard alla Victoria University di Wellington. Atrofizzando curiosità e capacità di far domande, impedendo concentrazione, assorbimento e costruzione della memoria stessa. Con l’assistente cognitivo i nuovi ricordi non sarebbero più i nostri, ma i suoi.
Kozloski non ha tutte le risposte. Il futuro – per fortuna? – è ancora un po’ in là da venire. Osserva però che liberi dalla pressione di ricordare tutto, potremo usare le nuove risorse mentali disponibili per sfide più ambiziose, trascendere limiti e deficienze della cognizione umana. Soprattutto, se e come usufruire di quelle informazioni saremo solo noi a deciderlo. Una soglia preimpostata impedirebbe all’assistente cognitivo d’intervenire di continuo. E imparando a distinguere tra pause di riflessione, esitazione e confusione, analizzando l’inflessione, il ritmo, le idiosincrasie del singolo, l’assistente ricalibrerebbe continuamente quella soglia per offrire un supporto sempre più mirato, meno invasivo e personale.