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 2016  febbraio 21 Domenica calendario

Il disincanto di Giovanni Veronesi: «In Italia c’è un’aria stagnante. Anche il mio è un mestiere sul baratro»

Il disincanto: “Le persone che fanno il cinema sono uguali in tutto il mondo: dicono che a loro non piace la roulotte e stanno sempre rintanati lì, giurano che il cestino per il pranzo faccia schifo, ma poi lo mangiano senza fiatare, sostengono di aver paura di prendere l’aereo e volano un giorno sì e l’altro anche”. I compagni di viaggio: “Odio profondamente gli attori quando fanno gli attori e li amo quando sorridono, alle sette e mezza del mattino mentre noi della troupe, tutti cisposi, ci stringiamo nei piumoni come sorci per proteggerci da un freddo della madonna e li osserviamo splendidi, all’aria aperta, in maniche di camicia”. Gli affari di famiglia: “Io e Sandro Veronesi, mio fratello, abbiamo avuto la fortuna di crescere in una famiglia illuminata, ma non troppo. In una tribù dai giusti princìpi, con qualche occasionale discesa nell’ingiustizia. C’erano le concessioni ed esistevano i divieti e a volte per ottenere permessi che a noi sembravano ovvi diritti, si lottava. Mio padre era un moderato di sinistra, mio fratello di passioni tenui non è mai stato. Litigavano tra loro e io mi addormentavo con questo meraviglioso duello verbale in sottofondo. Sapevo che Sandro aveva ragione, ma non mi dispiaceva che papà non gliela desse vinta facilmente”.
Giovanni Veronesi, 53 anni, è in partenza per Cuba: “Girerò un film ispirato a Non è un paese per giovani, il mio programma su Radio Due”. Stesso titolo (produce Paco cinematografica con Rai Cinema), storie simili a quelle che ogni giorno da 20 mesi, Veronesi racconta dai microfoni di via Asiago con Massimo Cervelli. Storie di emigrazione e di avventura: “Perché ogni anno nel silenzio della politica lasciano il Paese più di centomila ragazzi. In dieci anni se ne saranno andati più di un milione. Ci ritroveremo senza una o più generazioni”.
Dove vanno i ragazzi?
Vanno a fare i camerieri in Argentina o emigrano in Belgio dove la burocrazia non esiste e per aprire una gelateria ci vogliono 6 giorni. Altrove sono considerati una risorsa, da noi sono trattati come un peso. Sono confusi, traditi, disperati. Partono e poi a volte ritornano con la coda tra le gambe. Fuori è dura. Come è ovvio, non va bene a tutti.
Non emigrano più soltanto le eccellenze universitarie.

Non si parla più di fuga di cervelli né di viaggi sui piroscafi in cerca di fortuna. Qui le persone non se ne vanno per riunire in un secondo momento il nucleo familiare. Partono le schegge impazzite.
La politica, diceva, li ignora.
Un ministro definì bamboccioni ragazzi che senza prospettive restavano a casa dei genitori fino alla soglia dei 40 anni. Qualche mese fa mio nipote che sogna di fare l’attore è venuto a chiedermi consiglio. Avrebbe voluto che io gli dicessi rimani qui, faremo grandi cose insieme, avrebbe voluto un abbraccio.
E invece che cosa ha avuto?
Il consiglio di imparare l’inglese in fretta e andarsene. Una delusione clamorosa. In Italia c’è un’aria stagnante e come in tutti gli altri settori, anche nel cinema ci sono gravi difficoltà. Il mio è un mestiere sul baratro. In bilico tra il non esserci mai più e l’appiattamento totale della proposta, sia al cinema che in tv. La verità è che siamo una generazione di smidollati. Gente venuta su negli Anni 80 con la finzione della ripresa economica che ha poi scoperto essere una burla, una bolla gonfiata ad arte.
Nel suo film, i giovani protagonisti vanno in cerca di fortuna a Cuba.
Dove sono quasi più disgraziati di noi, ma si respira un’aria di rinascita e fermento. Magari durerà poco o magari l’isola sarà colonizzata dai russi o dagli americani. Ma lì ora c’è quello che in Italia manca. Il sogno. Se ai ragazzi lo togli, gli hai tolto tutto.
Abbiamo sognato.
Abbiamo avuto Berlusconi prima di accorgerci che il sorriso era di plastica. Quando mio padre lo votò, a casa rischiammo la scissione.
Oggi abbiamo Renzi.
Che qualcosa con il Jobs Act sta provando a fare perché si è accorto che i ragazzi sono l’unica ricchezza che abbiamo. Forse è tardi. È un governo che segue una filosofia che sembra prodotta direttamente dal navigatore di una macchina: ‘Svolta leggermente a sinistra’.
Matteo Renzi, Massimo Ceccherini e Leonardo Pieraccioni si conoscevano?
Sì, credo di sì.
Comunicavano intensamente?
Non comunicavano. E comunque non è Renzi che decide quando comunicare con Ceccherini, ma Ceccherini stesso che decide quando concedersi. Ceccherini è un mondo a parte.
Per qualche anno lei ha diviso il suo mondo con Francesco Nuti.
Ci incontrammo per la prima volta a Prato nell’81. Io e Sandro avevamo messo in scena una rilettura di Gogol e Nuti venne in camerino per congratularsi: ‘Non ho capito una sega, ma non mi sembri male’. Poco tempo dopo lo raggiunsi a Roma. Dormivo su una poltrona nel suo residence. Per capire che poteva trasformarsi in divano impiegai sei mesi.
Fuga da Prato.
Mentre Sandro litigava con mio padre per emanciparsi e conquistare spazi, nella distrazione, ad andarmene fui io. Da fratello maggiore le fregature le ha avute tutte lui.
A Roma quindi.
Ci venni in moto e mi sembrò subito bellissima. Guardavo i palazzi. Erano alti: ‘Se hanno tutti questi piani – pensavo – chissà quante gente conoscerò in più’.
Soldi in tasca zero.
Fino al momento in cui scrissi Tutta colpa del paradiso, aveva pagato quasi tutto Nuti. Poi il film andò bene, ne arrivò un secondo e i problemi economici sparirono.
Che vita facevate nei residence romani?
Una vita a tirar tardi. Francesco era abbonato ai casini sentimentali. Era diventato l’amante della moglie di un signore molto potente e proprio nello stesso periodo gli avevano bruciato la macchina. Si era convinto che le cose fossero in correlazione e in effetti, l’idea non era peregrina: ‘Se gli vai a trombà la moglie – gli dicevo – che si risenta è quasi naturale’. Una sera sulla terrazza del Residence Prati facemmo la guardia fino a tarda notte perché Francesco era preoccupato che arrivassero gli scagnozzi del cornuto.
Parlare di passato la appassiona?
Il passato non mi interessa e l’esperienza rompe soltanto i coglioni. Ti vieta di pensare. Bisognerebbe avere sempre l’occhio vergine. Pensare a ieri è meno interessante di immaginare il domani. Del passato conservo il ricordo di chi mi ha aiutato, dei mecenati fondamentali come Nuti e Vincenzo Cerami, delle amicizie vere.
Il resto?
Niente. Pensate che a casa non ho neanche una mia foto da giovane, neanche uno scatto con Francesco.
Lei ha sceneggiato i suoi sei film più importanti.
Io ero la parte cattiva che Francesco nascondeva. I sarcasmi che trovi nei suoi film sono miei. Mi divertivo molto. Cazzeggiavamo sempre.
“La mortadella è comunista, Il salame è socialista, il prosciutto è democristiano”.
Eravamo al mare a scrivere Caruso Pascoski e Francesco aveva voglia di un panino: ‘Al mare non si mangiano, si riscaldano subito’ dissi e lui: ‘La mortadella è comunista’. Iniziammo così, citammo tutto l’arco costituzionale e poi mettemmo il dialogo di quella giornata nel film.
Nuti si perse.
E io non me ne accorsi perché anche io avevo i miei casini. Eravamo talmente felici, sull’onda del successo e convinti che il mondo fosse nelle nostre mani che non ci preoccupammo per un bicchiere di vodka in più.
Solo Vodka?
Venivamo dalla provincia, avevamo paura della polizia, dell’arresto, dell’eventuale scandalo. Quindi sì, solo bottiglie e dalla droga, sempre lontanissimi. Tra gli amici di Francesco c’erano anche tanti cocainomani. Lui si sarà fatto sì e no una canna in tutta la sua vita.
All’apice del successo, Nuti girò OcchioPinocchio.
Aveva finalmente la possibilità di esprimere se stesso con un film importante e ricco, ma purtroppo, in quel momento, Francesco per metà era se stesso e per metà un’altra persona.
La critica fu durissima.
Il primo quarto d’ora è grande cinema americano e sembra girato da Ron Howard. Poi il racconto si dilata perché a quel tempo Francesco aveva quel ritmo. Un ritmo dilatato. Ma il film venne valutato ingenerosamente. L’idea di traslare tutto l’impianto collodiano e di modernizzarlo era buona. Non si parla di paese dei balocchi e di città della perdizione, ma di luce. Era un messaggio. Una proiezione. Francesco sperava che sposandosi e avendo dei figli avrebbe risolto i suoi problemi e sarebbe uscito dall’inferno.
Chi salvò Giovanni Veronesi?
La mia prima moglie, di solida estrazione borghese, nel ’93. Mi rimise in piedi lei. Mi riprese per i capelli.
Come sta Nuti oggi?
È tranquillo e secondo me sta meglio di ieri. I problemi non lo riguardano più tanto da vicino. Comunica con suo fratello che gli sta sempre accanto. Non parla bene, ma capisce tutto e comunica. Mi faccio ancora dare dei consigli, gli ho portato tante volte i dvd con i premontati dei miei film.
Era ingovernabile e fu fatto fuori dal cinema italiano?
Non credo. Si è trattato soltanto di una storia personale, dolorosa e privata. Oggi Francesco sta vivendo la sua terza vita. Ci sono persone destinate a vivere tante esistenze, più o meno belle o terrificanti. A me di vita ne è toccata una sola. Ma nonostante quel che gli è successo, penso che lì, sulla quella carrozzella, Francesco abbia comunque avuto un privilegio. Ha vissuto cose straordinarie. Noi al confronto siamo dei poveracci.
Nuti è stato anche in coma.
Teneva gli occhi aperti, non soffriva e sentiva tutto. Non avrebbe dovuto avvertire niente, ma ascoltava voci ovattate e vedeva il quadro che c’era nella sua stanza. Papaveri gialli.
Nei suoi confronti nutre sensi di colpa?
Certo ed è una cosa che non mi perdono.
Cosa non si perdona?
Di non essere stato in grado di capirlo e di aiutarlo quando Francesco ha avuto dei problemi. Lui con me lo ha fatto, io non sono stato capace di fare altrettanto. Non gli ho reso ciò che avevo ricevuto. Eravamo veramente amici. Anzi di più. Dividevamo tutto.
Perché non lo aiutò?
Perché ero ubriaco anche io.
I vostri film vennero prodotti sia da Cecchi Gori che da De Laurentiis.
Andavano bene. Donne con le gonne arrivò a 24 miliardi. I due sono diversi. Da chi iniziamo?
Cecchi Gori?
Con lui ho vissuto a Cartoonia per quasi quindici anni. Vittorio era un cartone animato. Ci ha fatto ridere, volontariamente e involontariamente, per quasi quindici anni. Una volta, eravamo in barca e lui si tuffò in mare come un masso rotola dalla scogliera. Senza articolare minimamente. Così, a picco, con un suono sordo. Eravamo tutti preoccupatissimi: ‘Vittorio, Vittorio, stai bene? Sei vivo?’.
Le condizioni del tuffatore?
Risalì senza scomporsi. Tutto nero. Tutto pieno di ecchimosi. Vittorio sarà anche buffo, avrà un colore di capelli che non esiste in nessuna scala cromatica e tutto quello che volete, ma è stato un grandissimo produttore. Non solo capiva di cinema, ma ne capiva persino più di suo padre Mario che lavorò in condizioni di splendore intellettuale molto diverse e migliori da quelle con cui si confrontò Vittorio. Dopo sono successe altre cose. L’hanno fregato. Vittorio è uno dei grandi truffati dei nostri tempi.
Lei ne parla bene.
Perché gli voglio bene. Se tornasse a fare il produttore io tornerei a fare film con lui e lo stesso farebbero molti dei miei colleghi. Mi ha fatto scrivere tutti i film che volevo, me li ha fatti girare, mi ha strapagato, mi ha portato in vacanza. Era meraviglioso.
De Laurentiis? Dicono che lei lo imiti perfettamente.
Aurelio è un generoso, ma anche un irritoso. È irritabile. Si infiamma e poi ritorna gentile. Una volta, ai tempi di Manuale d’amore, litigammo a morte per telefono. Volevo raccontare la fecondazione assistita e Aurelio non voleva saperne: ‘Siete ignoranti, parlate di cose che non conoscete, mi create casini, dite solo stronzate’. Chiudiamo bruscamente la conversazione e dopo un’ora il telefono squilla di nuovo. È lui: ‘Senti Giovanni, sto facendo la lista dei regali, qual è quel cazzo di vino che ti piace tanto?’. Io ero ancora incazzato. Lui se l’era già dimenticato. Cose che nel mondo del cinema, un mondo da fumetto, accadono. Da noi non ci sono gli stessi parametri della vita reale. Se Topolino è alterato, due pagine dopo sorriderà.
Tra loro non sorridono più i fratelli Muccino. Lei conosce entrambi.
Era un cucciolo di San Bernardo, Silvio. Veniva a casa mia, si buttava sui divani, si toglieva le scarpe, perdeva le cose, rompeva le lampade. Aveva un entusiasmo che mi contagiava e che mi manca. Voglio molto bene a entrambi e non vedere più Silvio mi addolora. Ha scelto una sua strada, più difficile e coraggiosa delle precedenti e poi ha chiuso la porta. Poi mi dispiace che non si parlino più. Per un litigio mio padre e suo fratello sono stati in reciproco silenzio per 18 anni. Poi, grazie alle mogli, si sono incontrati e raccontati tutto. Hanno provato a recuperare, ma certe cose purtroppo non le recuperi più.
Sul set de Il mio West diresse David Bowie.
Era il mio mito e per scritturarlo gli scrissi una lettera farneticante sul vento della Garfagnana. Mi incontrò e disse: ‘Guardandoti negli occhi capisco perché sei completamente pazzo’.
Come andò tra voi?
Non ho mai incontrato uno più snob di lui. Una volta, mentre discutiamo al tavolo, mi assento per pochi minuti lasciando a colloquio con Bowie il mio assistente. Ne passa uno e Bowie si alza: ‘Me ne vado – dice spietato – qui la conversazione si sta abbassando di livello’. Era altero. Mi aveva dato il divieto assoluto di fargli firmare vinili. Riuscii a convincerlo a siglarne un paio, uno ce l’ha Verdone. Poi ce ne sono in giro altri cento. Ma li ho firmati io. Se qualcuno pensa di avere la firma di un Bowie dell’epoca, ha solo un Veronesi. Mi autodenuncio.