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 2016  febbraio 21 Domenica calendario

Sull’unione bancaria divisa dal bail-in

Venerdì scorso l’avvocato generale della Corte di giustizia europea, chiamata in causa dalla corte costituzionale slovena, ha stabilito che il bail-in previsto dalle regole della Commissione non è condizione pregiudiziale per la concessione di aiuti di stato; ha inoltre confermato che il «salvataggio interno» non deve avere «effetti sproporzionati» (ovvero, generare instabilità finanziaria), e che il giudizio su questi effetti spetta alle autorità giudiziarie nazionali.
Eppure da inizio anno abbiamo visto un altro film: titoli azionari e obbligazioni in caduta libera a Piazza Affari, short selling sui big del credito e della finanza, attacchi indiscriminati dei fondi speculativi sulle banche più solide del listino, balzo improvviso dei credit default swap, le “polizze” assicurative sui rischi di default di bond e titoli di Stato. Infine, il ritorno in altalena dello spread, spinto su e giù da una strisciante sensazione di incertezza non solo sulla solidità delle banche, ma persino sulla sicurezza del risparmio investito in titoli e di quello custodito nel conto corrente. Per chi ha vissuto la grande depressione del 2008, dal crollo di Lehman alla crisi del debito dell’Eurozona, gli ultimi tempi hanno risvegliato i brutti ricordi delle manovre speculative del 2011. L’Italia, le sue banche e la Borsa sono tornati al centro dell’attenzione internazionale e soprattutto alla base delle tensioni politiche su cui si è impantanato ormai da troppo tempo il processo di integrazione fiscale e finanziaria dell’Unione Europea.
Per il piccolo risparmiatore, e soprattutto per quei cassettisti che avevano comprato bond e titoli bancari contando sulla resilienza dimostrata dal sistema durante la recessione e la crisi finanziaria, non è facile farsi una ragione della piega presa dagli eventi: certo, il debito pubblico è sempre alto, ma gran parte delle riforme chieste cinque anni fa dalla Ue sono state approvate e altre sono oggettivamente in cantiere. Perché, allora, il fortino-Italia è tornato sotto assedio? Che cosa spinge il mercato ad accanirsi indiscriminatamente contro grandi banche e piccoli istituti, colpendo sia le azioni ordinarie che le diverse classi di obbligazioni quotate sui listini? 
Se il confronto tra ratios patrimoniali, leva finanziaria, esposizione ai derivati di credito, coperture e garanzie sugli impieghi, colloca infatti le nostre banche ai livelli più elevati in Europa, come si spiega il trattamento dei mercati? E infine, se il problema degli Npl nei bilanci è stato già ampiamente riflesso nelle valutazioni dei titoli delle banche, perché il mercato sembra utilizzare un doppio standard non solo nella scelta dei parametri di investimento in azioni e obbligazioni, ma persino per decidere tra ciò che è sicuro e ciò che non lo è? 
Una partita, molte regole 
Ecco una prima risposta: perché nel risiko tra mercati e banche creato dal bail-in, ogni Paese gioca ormai per conto suo. Invece di presentarsi come una vera Unione che si confronta su un campo livellato da un quadro di regole uguali per tutti, l’Europa ha permesso nell’indifferenza che ogni Paese scrivesse le norme a modo suo. Quando si tratta di fissare regole per il traffico stradale, il problema è marginale. Ma se sul tavolo ci sono le regole che riguardano il fallimento delle imprese bancarie e l’azzeramento dei risparmi investiti in prodotti finanziari, il problema diventa grosso e pericoloso: i capitali non hanno passaporto e non conoscono Shengen. Se le regole non piacciono, si spostano dove trovano le migliori condizioni. Non è retorica, è scritto già nei prezzi di Borsa: da quando il bail-in è diventato operativo (il primo gennaio scorso) Piazza Affari ha perso oltre il 25% della capitalizzazione, mentre le banche addirittura il 50% del valore e un crollo simile nei prezzi delle obbligazioni bancarie. Se la competizione fosse davvero livellata e le regole su fallimenti e copertura delle perdite uguali per tutti, l’Italia non avrebbe dovuto perdere più degli altri. Ma non è stato così. 
Se si esclude la parentesi del crollo in Borsa di Deutsche Bank, travolta dai timori di uno shortfall patrimoniale legato all’eccesso di leva e di derivati in bilancio, non solo il resto mercato azionario europeo ha tenuto meglio del nostro alla tempesta finanziaria sulle banche, ma si sono persino create delle situazioni grottesche sui mercati obbligazionari, i più esposti ai contraccolpi dei fallimenti bancari. In ogni fallimento bancario, infatti, c’è sempre una gerarchia di creditori. Se i bond di una banca sono la chiave di una bancarotta ordinata, la questione scottante per i regolatori è la subordinazione del debito bancario senior in modo che gli investitori paghino un prezzo lasciando al contempo intoccati i depositanti. Le holding bancarie e il loro debito sono in questo senso il tassello principale di questo puzzle del rischio bancario. 
Le holding 
Il problema che si è creato, come ha giustamente denunciato l’Italia, sono gli approcci legali concorrenti che sono emersi in tutta Europa. Mentre in Italia la legislazione fallimentare è rimasta sempre la stessa, altre nazioni hanno modificato arbitrariamente le regole di base prima che il bail-in entrasse in vigore. Il modello di riferimento per gran parte dei Paesi europei (Italia esclusa) è diventato quello già adottato in Inghilterra, Svizzera e Stati Uniti: porre al vertice della società operativa bancaria (quella che gestisce la rete degli sportelli) una holding company che ne detiene il capitale. In Inghilterra, le Holding possono così giocare un ruolo chiave nel complesso processo di risoluzione: l’idea è che quando una grande banca fallisce e il suo capitale viene azzerato, i suoi obbligazionisti si fanno carico delle perdite per ricapitalizzare la banca e permetterle di continuare ad operare. In pratica, non solo si arginano così le legittime paure dei depositanti, ma si costruisce un percorso alternativo a quello previsto uguale per tutti nella direttiva del bail-in. Ecco dunque come i paesi forti hanno neutralizzato il rischio-insovenza che sta invece logorando in Borsa le nostre banche. In questo schema “furbetto”, le banche emettono debito senior non garantito dalla Holding company, che trasferisce poi i fondi raccolti alla società operativa bancaria. La Holding in questo modo possiede il debito della banca, che può essere azzerato in caso di forti perdite improvvise che ne mettano a rischio il patrimonio. Nello stesso tempo, il debito senior emesso dalla banca rimane inviolato. La separazione tra holding e società operativa bancaria, con la prima che fa da garante ai correntisti e agli investitori della banca, ha creato insomma uno scudo protettivo non solo su azionisti e clienti, ma anche sulle quotazioni di Borsa. 
Fino all’anno scorso, il fenomeno è passato praticamente inosservato, ma dal primo gennaio scorso gli squilibri nella percezione di sicurezza tra i sistemi bancari che hanno adottato il modello holding-banca (gran parte dell’Europa centrale e settentrionale) e quelli che non l’hanno fatto (l’Italia in testa), sono così esplosi in modo devastante con l’entrata in vigore del bail-in. Non che si tratti di una scorrettezza ai nostri danni: è solo fastidioso che né la Bce né la Commissione si siano assunti la responsabilità di spiegare o prevenire le conseguenze potenzialmente drammatiche degli squilibri e delle divergenze a cui l’Europa stava andando incontro. E a farne le spese è stata ovviamente Piazza Affari: in poco tempo, il mercato dei bond bancari italiani ha perso gran parte della liquidità. Al contrario di quanto avviene su altri listini. 
Che lo schema delle holding stia schiacciando la competizione sul debito è dimostrato da alcuni esempi: se si prendono in esame i bond emessi con la stessa scadenza (il 2021) da Barclays e Royal Bank of Scotland si resta a bocca aperta. Le obbligazioni emesse dalle rispettive Holding, hanno oggi tassi di interesse intorno al 2,5%, cioè in linea con la media delle grandi banche euroee. Le stesse obbligazioni emesse dalle società bancarie sottostanti hanno invece tassi da Titoli di Stato, tra lo 0,5 e lo 0,7%, un po’ come se fossero stati garantiti dal Governo inglese. Inutile dire che davanti a questi tassi, e soprattutto con le banche operative protette ampiamente dal rischio dei bail-in, i bond bancari italiani sono finiti al tappeto. Il tutto, con la benedizione dei regulators internazionali, della Bce e persino di Bruxelles. Le cifre in gioco sono enormi: alla fine del 2014, i bond delle holding (vecchie o neo-costituite) candidati alla cancellazione in chiave anti-crack della banca ammontavano a 650 miliardi tra dollari, euro e yen: questa cifra, dopo il boom delle emissioni delle Holding nel 2015, si aggira ora sui 1.200 miliardi. 
Le leggi fallimentari 
Nella squadra dei super-emittenti a prova di bail-in ci sono colossi come Hsbc, Barclays, Rbs e le più importanti banche francesi, tedesche e spagnole. E laddove non è stata incentivata la separazione tra holding e banca, il legislatore ha modificato le leggi fallimentari per consentire alle banche di emettere titoli facilmente azzerabili in caso di necessità: la Germania, per esempio, è ricorsa a questa soluzione per aiutare Deutsche Bank, Commerz e gli altri big nazionali a emettere titoli “double face”: bond con maggiore garanzia di tenuta in caso di bail-in e quindi con tassi più bassi, e obbligazioni senza paracadute e con tassi più elevati. 
Nuovi titoli 
La Spagna ha fatto anche di più, ovviamente con il placet di Francoforte e Bruxelles: ha creato ex novo l’anno scorso un nuovo tipo di bond bancario – il cosiddetto Tier 3 Capital – che assorbe le perdite per tutte le altre classi di bond già emesse, senior e subordinati. Per chi non ha fatto né uno né l’altro, come nel nostro caso, le prospettive non sono le migliori: si calcola oggi che circa 47 banche europee avrebbero bisogno di almeno 510 miliardi in obbligazioni pronta-cancellazione per scongiurare il rischio di un azzeramento del capitale o di decurtazione dei conti correnti in caso di crisi acuta. 
Il doppio binario 
Un esempio emblematico di questa fase, che nessun operatore di Borsa racconta volentieri, è il diverso trattamento che gli investitori internazionali riservano non solo ai mercati obbligazionari nazionali della Ue, ma anche alle diverse tipologie di obbligazioni di un singolo emittente. Venerdì scorso, due bond emessi dalla Barclays con la stessa data di maturazione, avevano prezzi e rendimenti completamente diversi. 
Insomma, le banche italiane avranno anche le proprie colpe sui ritardi con cui si sono presentate all’appuntamento con il bail-in. E lo stesso governo italiano avrebbe certamente dovuto fare più attenzione su quanto stava avvenendo l’anno scorso. Ma resta il fatto che le responsabilità maggiori sono quelle di chi avrebbe dovuto garntire un percorso omogeneo, o quanto meno un processo armonico, nel cammino degli stati membri verso la vigilanza unica bancaria e soprattutto verso il bail-in. 
Nessuno mette in dubbio che la protezione dei contribuenti dal rischio bancario sia stata una grande conquista, soprattutto oggi che scarseggiano le risorse pubbliche per gli investimenti nell’economia reale. Ma se l’Europa vuole continuare a stare insieme ed evitare quella che oggi appare come un’inarrestabile deriva politica economica e culturale, sarebbe meglio non snobbare come è stato già fatto la richiesta di una sospensiva di un anno nell’applicazione del bail-in. Qui non si tratta più, come alcuni rimproverano frettolosamente all’Italia, di farsi riconoscere una naturale riottosità alle regole. Qui si tratta di evitare che l’Europa proceda in ordine sparso verso un mercato senza futuro.