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 2016  febbraio 21 Domenica calendario

Arbasino ricorda il suo amico Umberto Eco

«Me lo ricordo allegro, vivacissimo, bontempone in mezzo a codici, stemmi e semiologie varie, lui che era tutt’altro che severo». Alberto Arbasino rievoca la figura del suo amico Umberto, ai tempi del Gruppo 63, più di cinquant’anni fa. Quando l’allora brillante saggista, che aveva appena scritto sulle tempeste ormonali di Rita Pavone e sulla fenomenologia di Mike Bongiorno, aveva anche parlato della loro generazione, la generazione di Nettuno, «un saggio molto bello, forse il suo più bello che consiglio vivamente a chi non lo conosce», continua Arbasino. E con lui parliamo di quell’«uomo ludens, che ama scherzare, giocare, ridere e fare ridere» come ha scritto Jacques Le Goff. Un grande docente, un grande divulgatore, un grande ricercatore, un romanziere di fama mondiale «tardivamente fiorito» dopo la cinquantina. «Come scrittore (risponde Arbasino) Eco nasce in conseguenza della sua attività saggistica. “La struttura assente” e gli altri libri ideologici non davano l’idea di un allegrone che guarda ai fenomeni e agli stemmari per impossessarsene».
Si poteva, comunque, prevedere che sotto le spoglie del saggista e dell’intellettuale si nascondesse il narratore?
«Eco agita nel romanzo i suoi fantasmi intellettuali. Grazie al romanzo ha avuto modo di sviluppare molti aspetti della sua personalità. La straordinaria intelligenza è anche intelligenza di fantasia e d’immaginazione, elaborazione della cultura in termini d’immaginazione. Il sapere si trasforma in storia, l’erudizione in fiction, la ricerca diventa intrigo poliziesco, romanzesco, esistenziale».
Il Medioevo, il giallo, la discussione filosofica, la diffusa aspirazione a guardare alla storia del passato sul nastro di scorrimento del presente. Il “Nome della Rosa” è anche costruito secondo regole assai precise. Il romanzo storico non è anche il mezzo migliore per arrivare ai problemi di oggi?
«Ricordo perfettamente lo straordinario successo del suo romanzo a Salisburgo e a Los Angeles. Il suo romanzo è davvero un prodotto di ottima qualità e anche di fortunata coincidenza. Il medioevo entrava nell’immaginario collettivo. Era come un argomento atteso quando si avvertiva il bisogno di uscire dalla palude della contemporaneità».
A proposito di bisogni e di ricezione. Lei ha scritto, nei “Ritratti italiani”, che Eco s’indirizzava con quel suo romanzo così fortunato da una cattedra dotta a un target di consumatori laureandi e laureati nell’università, costruendo oggetti complessi che fanno un po’ paura agli incolti. È cosi?
«C’era evidentemente, per quel libro, con un successo così clamoroso sul mercato internazionale, oggetto di analisi, discussioni, polemiche, un pubblico di lettori pronto ad accogliere questi tipo di argomenti, questi temi così pervasivi, in quel clima. Poi Eco ha scritto il “Pendolo”, “Baudolino” e altri romanzi in questi ultimi trenta e più anni. E questo romanzi mi hanno assai meno interessato, e talora li ho trovati un po’ più corrivi».
Semiologo, saggista, giornalista, romanziere, una figura di “umanista della modernità, di Pico della Mirandola in un tempo della memoria ossessiva”, uno dei ricercatori italiani che è ha avuto continuità di dialogo con la cultura internazionale Ma che cosa accomuna secondo lei l’identità di differenti scritture?
«Ma, sicuramente, l’etichetta narrativa che attraversa tutti i generi e che appartiene a un narratore nato. Se il suo lavoro scientifico è pieno d’immaginazione, i suoi romanzi si nutrono di scienza, di erudizione. I suoi testi più belli, più piacevoli ruotano intorno allo spunto narrativo. E le sue polemiche, la precisione di tipo stilistico, certe notarelle gustose dal costume alla linguistica partono sempre da qualcosa di narrativo. Vera gloria d’Italia, una delle poche».
Eco e la cultura di massa, pronto a smontare le grandi macchine narrative e filosofiche e a saperne ridere attraverso la parodia e il camuffamento. I prodotti della civiltà dei consumi analizzati con la stessa freddezza tecnica con cui si analizza ogni evento culturale. E molte di queste analisi, di queste suggestioni sono passate attraverso i giornali, i mass-media, fin dall’esordio della sua firma.
«Tutto nasce dal suo bisogno irresistibile di comunicazione. Eco ha scritto sui giornali e per i giornali. Oltre ad essere un giornalista di primordine, è stato anche un intenditore, un critico, un conoscitore delle tendenze giornalistiche. E non solo italiane. Si può anche dire che ha fatto nello stesso tempo le due cose scrivendo per i giornali e sui giornali. E quel bisogno irresistibile di comunicazione l’ha alimentato attraverso il tempo, con strumenti di analisi e di conoscenza che oggi possono sembrare inverosimili».
Perché?
«Inverosimili, certo: oggi quello stesso tipo di lavoro appare davvero molto modesto».