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 2016  febbraio 21 Domenica calendario

Così il Rischiatutto conquistò l’Italia (nonostante un errore clamoroso alla prima puntata)

Giovedì 5 febbraio 1970. Teatro delle Vittorie in Roma. Si registra la prima puntata di
Rischiatutto, il nuovo quiz condotto da Mike Bongiorno.
L’esordio non fila via liscio: il trentunenne concorrente fiorentino Giovanni Micheli, esperto di filatelia e fine enigmista, contesta la correttezza di una domanda, mentre l’assicuratore bergamasco Franco Moretti inguaia il conduttore e l’autore Vigevano che per la vergogna se la darà a gambe la sera stessa.
Tutta colpa del quesito sulla poesia «Piemonte» del senatore del Regno, Accademico dei Lincei e Nobel della letteratura Giosué Carducci.
La puntata viene rubricata «di prova», ma a partire dal giovedì successivo e sino al 25 maggio del 1974 la trasmissione infrange ogni record e tiene incollati al video circa trenta milioni di italiani.
Rimangono ipnotizzati da centocinquantasei puntate cui partecipano quasi trecento concorrenti, alcuni dei quali diverranno divi televisivi e testimonial di brand prestigiosi come Invernizzina (che bontà…) e prodotti di lusso come il liquore all’uovo Verpoorten, onnipresente nei mobili bar immortalati nelle scollacciatissime riviste scandinave per coppie moderne.
Intrattenimento e cultura
Sono trascorsi 46 anni e una quindicina di giorni da quella fatidica data e in concomitanza con la messa in onda delle prime puntate di Quasi quasi Rischiatutto (che anticipa l’edizione autunnale del Rischiatutto condotto da Fabio Fazio cui ho avuto il piacere e l’onore di collaborare come «esperto»), giova riflettere su quanto siano cambiate nel corso di quasi mezzo secolo la concezione, la valenza e la percezione della televisione, dell’educazione, della cultura e della fama.
Rischiatutto, come molti programmi d’intrattenimento leggero del tempo, conobbe il favore del pubblico e il biasimo della critica engagée, ma rimane un’espressione fedele e lo specchio sincero di un paese che oggi fa quasi tenerezza.
Era un’Italietta modesta, carica di mutui, rate e cambiali, frastornata dai tumulti del biennio 1968-69 e scossa dagli attentati, ma ancora giovane, curiosa, vogliosa di apprendere. Era un’Italia di corsi serali e tripli turni, privatisti e autodidatti, pluriclassi zeppe di mocciosi in pantaloni corti e dolcevita di rayon, ma disposta a fare grandi sacrifici pur di avere un’istruzione o assicurarla ai propri figli, riconoscendo universalmente il prestigio della cultura, il valore dell’educazione, la fortuna di studiare.
Gli apparecchi televisivi erano pochini – poco più di 10 milioni – rigorosamente in bianco e nero e piccini (oggi sono 38 milioni, full color HD e grandi il quadruplo dei loro antenati), ma il Servizio Pubblico vantava professionalità e competenze di prim’ordine, con programmi di rara intelligenza e garbo.
Non stupisce pertanto il successo di una trasmissione che, come sottolineò Mike Bongiorno, coniugava cultura, istruzione e intrattenimento con un modesto budget per puntata, pari a circa 5 milioni (di lire!). Né colpisce il gradimento, per citare quant’era misurato dall’omonimo indice della Rai, che il programma riscosse tra i vicini di pianerottolo e di ombrellone, i colleghi d’ufficio e le compagne di turno, i soci del circolo e le amiche della parrocchia, tra quanti non erano dottori e sfoggiavano la Treccani ma leggevano la Notte e la Rosea, ABC e Confidenze, i fotoromanzi della Universo o i settimanali enigmistici di Corrado Tedeschi, già fondatore del Partito della Bistecca.
Era parimenti difficile astenersi dal tifo e dal desiderio d’emulazione: i supercampioni e le supercampionesse erano persone normali, molto spesso giovani (Mike presentò come «anziano» il quarantanovenne Ernesto Marcello Latini), sovente studenti o comuni lavoratori: Gianfranco Rolfi faceva l’operaio stampatore, la Longari la segretaria di produzione, Umberto Ruzier l’impiegato dell’Alitalia, Anna Mayde Casalvolone e Marilena Buttafarro erano casalinghe, etc.
Oltre il miraggio disneyano dei milioni in gettoni d’oro (nel 1971 il salario medio di un operaio si aggirava sulle 130.000 lire, quando un frigorifero ne costava 200.000 e una Fiat 127 920.000), erano la prossimità sociale e l’esemplarietà biografica le cifre identificatrici prevalenti: in un Belpaese in cui la sequenza aiutino-spintarella-colpo di fortuna-botta di culo ha sempre prevalso sulla rivale autodisciplina-esercizio-merito-premio, il messaggio era (e rimane) rivoluzionario: l’impegno paga, lo studio serve, eccome!
In tal senso sono passati quasi cinquant’anni, eppure l’Italia e la Televisione, non solo pubblica, oggi hanno ancora – più che mai – bisogno dei valori che quel Rischiatutto incarnava. L’intelligenza, l’istruzione, la misura non hanno una data di scadenza e per coniugare con successo educazione e intrattenimento non serve scomodare la crasi anglosassone edutainment. Basta guardare un po’ indietro.