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 2016  febbraio 21 Domenica calendario

Calenda scrive al Corriere per spiegare le linee guida del suo mandato a Bruxelles

Caro direttore, nell’imminenza dell’assunzione del mio incarico di Rappresentante permanente Italiano ritengo utile tracciare, d’intesa con il governo, il quadro delle linee guida ricevute relativamente al mio mandato. Il governo italiano ha piena consapevolezza che l’Unione Europea corre un grave rischio. L’azione di forze di diversa natura, interne ed esterne, economiche e politiche, ne stanno minando le fondamenta. Per questo l’impegno prioritario dell’Esecutivo italiano nei prossimi mesi sarà rivolto all’Europa, per l’Europa. Per la stessa ragione l’Italia ha riunito a Roma i sei Paesi fondatori con l’obiettivo di iniziare a definire gli elementi di un progetto che alla fine del 2017 rilanci la costruzione politica europea. Il ministro Gentiloni ha individuato alcuni pilastri fondamentali di questo nuovo progetto, a partire dall’idea di un’Europa a cerchi concentrici, con diversi gradi di integrazione. L’accordo raggiunto con il Regno Unito al Consiglio è sostanzialmente compatibile con questa prospettiva. Sappiamo però che prima della conclusione del ciclo elettorale del 2017, che coinvolgerà anche Germania e Francia, è difficile prevedere progressi decisivi nella costruzione politico-istituzionale. Il 2016 sarà dunque l’anno in cui l’Europa imboccherà alternativamente la strada della disgregazione o del consolidamento, con la prima tendenza che sembra oggi prevalere.
Ci sono tre questioni fondamentali da affrontare per rimettere in sicurezza le fondamenta dell’Unione. Il primo tema è quello delle migrazioni. La «raccomandazione» alla Grecia, che il nostro Paese non ha condiviso, è la premessa, anche giuridica, per mantenere controlli rafforzati alle frontiere. Non è un esito a cui possiamo rassegnarci. L’Italia si impegnerà a fondo affinché questa eventualità venga scongiurata. Ma se alla fine si dovesse decidere che il rafforzamento dei controlli alle frontiere interne è un male necessario, faremo in modo che questo diritto sia regolamentato in maniera puntuale in termini di parametri, equilibrio, trasparenza e verifiche periodiche. Il rischio altrimenti sarà quello di svegliarci in un’Europa divisa in blocchi, dove i Paesi di frontiera sono «sigillati», mentre altri Stati membri mantengono aperti i confini tra di loro. Questa ipotesi, nota come «Mini-Schengen», rappresenterebbe l’inizio della fine dell’Europa. Abbiamo poi bisogno di superare il principio del Paese di prima accoglienza e di porre le basi per una politica europea in grado di ricomporre le tessere di un mosaico complesso: controllo delle frontiere, gestione dei flussi di ingresso e dei rimpatri, accoglienza condivisa dei rifugiati, partenariato con i Paesi di transito e provenienza per lo sviluppo e contro il traffico degli esseri umani, lungo un vasto arco geografico. Sappiamo bene che sul superamento di Dublino ci sono contrarietà politiche di molti Paesi, non solo in Europa centrale e orientale, ma queste difficoltà vanno superate anche costruendo un asse con la Commissione e gli Stati che condividono le nostre preoccupazioni, la Germania in primo luogo. Un primo risultato è stato raggiunto con il recepimento, grazie al lavoro dell’Ambasciatore Sannino, nelle Conclusioni del Consiglio della posizione italiana sul tema, che era assente nella prima bozza circolata dal segretariato del Consiglio.
Il secondo rischio sistemico per l’Unione riguarda il mancato completamento dell’Unione Bancaria. La normativa sul bail-in presuppone l’approvazione dell’assicurazione europea sui depositi. Avere la prima ma non la seconda ci espone tutti a rischi di attacchi speculativi. La garanzia va varata senza ulteriori condizioni, come quella relativa alla ponderazione dei titoli di Stato nei bilanci delle banche, che aumenterebbero l’instabilità del sistema. Su questo punto, come ha affermato il presidente del Consiglio, non c’è alcun negoziato possibile, mentre altri, diversi, punti di equilibrio tra de-risking e mutualizzazione possono essere esplorati. Sovranità contro condivisione dei rischi è una strada che siamo disponibili a percorrere. Ma la selezione dei rischi da condividere e delle parti di sovranità da cedere non può essere un menù pre-confenzionato. Per questo, come ha osservato il ministro Padoan, non siamo contrari per principio alla proposta di un ministro europeo delle Finanze, purché sia dotato di strumenti di politica attiva, e dunque di un vero bilancio. Premessa necessaria è però un contesto politico di ampia condivisione delle priorità economiche e finanziarie, a partire da un appoggio convinto alla politica monetaria della Bce.
L’altra questione fondamentale è quella della crescita. In premessa va chiarito che non siamo interessati a un dibattito generico e ideologico tra flessibilità e austerità, che consideriamo sterile. Il governo italiano ha ampiamente dimostrato di essere convinto che la crescita si fa in primo luogo attraverso le riforme. Allo stesso modo siamo persuasi che l’esistenza di regole è indispensabile per sostenere l’architettura europea. Quello che troviamo inadeguato è il margine di manovra accordato agli Stati sul deficit, in termini sia dimensionali che temporali, per sostenere economicamente e politicamente i programmi di riforma, di investimento e per la gestione delle emergenze. Uno squilibrio che ha l’effetto perverso di spingere sempre più Paesi all’interno del c.d. braccio correttivo. Lo spirito della comunicazione della Commissione del gennaio 2015 va recuperato e rafforzato. Per questo vogliamo aprire un confronto non burocratico sul programma nazionale di riforma che presenteremo di qui a poche settimane. Dobbiamo superare il dibattito flessibilità/austerità e rimettere al centro il tema della competitività, dove l’Italia può candidarsi a essere un case study su come Commissione e Stati possono trovare un modo nuovo di lavorare insieme. La crescita necessita anche di una solida politica industriale europea. Questo tema, oggi scomparso dall’agenda, va rilanciato con forza dall’Italia, con un approccio orizzontale. Dal meccanismo degli aiuti di Stato a quello della politica commerciale non possiamo affrontare in modo superficiale e dogmatico argomenti come la crisi dell’acciaio e il Market Economy Status alla Cina. Questi due dossier, profondamente interconnessi, dimostrano peraltro che quando il nostro Paese è capace di portare, in maniera strutturata, la propria posizione in Europa costruendo alleanze riesce a svolgere un ruolo di leadership.
È doveroso tuttavia ammettere che molto abbiamo ancora da fare anche in Italia, per migliorare il modo in cui portiamo le nostre posizioni in Europa. Una maggiore presenza del governo e dell’amministrazione, il ricorso sistematico ad analisi quantitative e la presentazione di argomentazioni ben motivate nelle prime fasi dei processi di formazione dei dossier, sono gli elementi metodologi su cui lavoreremo per essere più incisivi. La Commissione deve d’altro canto dimostrare una maggiore attenzione su trasparenza, tempi di reazione e impatto che le decisioni prese hanno su operatori economici e mercati. L’ultimo punto che voglio toccare è proprio quello del rapporto con la Commissione europea. Una Commissione forte è il miglior alleato dell’Italia. Ma le risposte sin qui messe in campo non sono state sufficienti per superare gli ostacoli posti da un contesto difficilissimo e da una dimensione intergovernativa diventata sempre più invasiva. Libera circolazione e controllo delle frontiere, sicurezza finanziaria e crescita sono pilastri di qualunque Stato/comunità di Stati, se vacillano l’intera costruzione europea si trova a rischio. Questa tendenza si può invertire, e se la Commissione dimostrerà di avere capacità politica di visione e di azione il governo italiano la sosterrà convintamente. Se viceversa porterà avanti un approccio «business as usual» saremo costretti ad ingaggiare un confronto politico rispettoso ma duro, mossi da una visione ambiziosa dell’Europa e delle sue istituzioni. L’idea che gli italiani siano «legno storto» da raddrizzare attraverso massicce dosi di medicina europea non ci appartiene. Riteniamo infatti che proprio questo pregiudizio diffuso in Italia e in Europa, è una delle cause fondamentali dell’allontanamento dei cittadini dalle istituzioni europee.