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 2016  febbraio 21 Domenica calendario

«Il Regno Unito sarà più sicuro, più forte e più ricco in una Unione riformata». Lo dice Cameron in vista del referendum del 23 giugno

 Torna a casa con il riconoscimento dello «status speciale» per il Regno Unito. Così dopo avere tanto strepitato contro l’Europa, David Cameron si prepara alla campagna referendaria del 23 giugno sventolando la bandiera dell’Unione. Poiché ha fretta di chiudere il dossier europeo che è la chiave di volta della sua leadership, il premier britannico non indugia a sfidare gli irriducibili partigiani della Brexit: «Ciò che propongono in tempi di incertezza è il rischio di un salto nel buio. Il Regno Unito sarà più sicuro, più forte e più ricco in una Unione riformata». Il negoziato si è chiuso con il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto e a Cameron interessa solo rimarcare ciò che gli serve per guidare il fronte europeista: ha eretto barriere più solide attorno alla City, ha tolto di mezzo il vincolo dell’adesione di Londra a una Unione «ancora più stretta», ha in tasca il congelamento di alcuni generosi sussidi pubblici per gli immigrati, ha ampliato il fossato fra Paesi di area euro e Paesi di area non euro di modo che i vincoli finanziari dei primi non impegnino automaticamente i secondi. Non è poco. 
Ma il bello deve ancora venire. Se trovare un punto di equilibrio con i partner continentali è stato problematico, sono non da meno in salita i quattro mesi che mancano al sì o al no alla Brexit. Cameron si gioca la carriera e la reputazione. A suo modo compie una scommessa coraggiosa in quanto ha davanti un partito diviso, un elettorato indeciso e l’opposizione dell’editore amico Rupert Murdoch, dei suoi tabloid Sun e Daily Mail, capaci di influenzare 5 milioni di affezionati lettori. Il governo, convocato in riunione straordinaria (non capitava dal 1982), registra la defezione di cinque ministri. In testa Michael Gove (Giustizia) e Ian Duncan Smith (Lavoro). E sul crinale resta il sindaco di Londra, Boris Johnson. Poi c’è il gruppo ai Comuni con un centinaio di parlamentari che affiancano gli antieuropeisti dello Ukip, il 13% dei votanti alle ultime consultazioni generali. Anche se incassa l’appoggio maggioritario della City, delle grandi banche e dell’industria, il risultato del 23 giugno non è scontato. 
Da mesi i sondaggi si divertono a regalare numeri che ondeggiano. Ogni società offre il suo verdetto. Il Financial Times li ha messi assieme e ha fatto una media al 16 febbraio: 41% no a Brexit (con poche defezioni i laburisti, senza esitazioni liberaldemocratici e indipendentisti scozzesi), 41% sì a Brexit. Ma con una soglia alta di indecisi: sono in gran parte simpatizzanti conservatori. Ed è proprio su tale fronte che Cameron misurerà la sua leadership. I britannici, euroscettici di natura, sono sempre andati alle urne con una forte dose di pragmatismo. Eccezion fatta per qualche suggestivo e transitorio richiamo populista, alla fine hanno sempre compiuto una scelta in nome delle prospettive di tranquillità e solidità economica, respingendo fughe in avanti prive di certezze. Il dopo negoziato si presenta per Downing Street delicato per mille motivi: i numeri sulla carta incerti, molti conservatori in crisi d’identità, una parte del governo che dissente. Ma il dado è tratto. Cameron ha sciolto dubbi e riserve, accontentando gli amici di Washington che hanno insistito, la Merkel e i banchieri preoccupati dall’ipotesi di strappo. Non può perdere il referendum. Altrimenti comincia la stagione del declino. E forse del pensionamento anticipato rispetto alla scadenza naturale del 2020.