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 2016  febbraio 21 Domenica calendario

Kiev a due anni dalla rivoluzione, in nome di una svolta che non c’è mai stata

C’è un ragazzo dai capelli rasati che urla dentro a un microfono: «È giunta l’ora di un’altra rivoluzione, lo dobbiamo ai nostri cento eroi caduti proprio due anni fa in nome di una svolta che non c’è mai stata». Indossa una tuta mimetica come quasi tutti gli altri tremila che lo circondano e come i tanti altri che aspettano ordini alle porte della città. Ricoprono ancora appena un angolo della sterminata Majdan che vuol dire semplicemente “la Piazza” e che da anni ormai è il luogo in cui l’Ucraina protesta, muore e in qualche modo cambia i regimi. Sul palco, davanti a un centro commerciale che fa sconti del venti per cento su tutta la merce, i giovani reduci dalla guerra civile nel Donbass ribelle e filorusso, si alternano tra appelli all’insurrezione e ultimatum al governo che «deve solo dimettersi». Sembrano decisi, occupano la hall di un albergo vicino, piazzano una tenda militare al centro della Piazza, confabulano su stufe da campo che starebbero arrivando da un momento all’altro. E ammettono di custodire «tante armi da conquistare Kiev in una notte» come Andryj, 27 anni, ex ingegnere, che si definisce «eroe dell’ultima Majdan». L’assalto a due banche russe quando la notte è ormai inoltrata sembra confermare le sue parole.
Tutto attorno, tra le aiuole ricostruite di fresco e le gigantesche carreggiate del Kreshatik, viale delle passeggiate e dello shopping, la gente li guarda perplessa ma anche ammirata. Marjana, 42 anni, contabile, esprime un pensiero diffuso: «Non amo quel piglio violento e nemmeno quell’aria nazistoide di molti di loro. Ma li capisco. Dobbiamo decidere tra caos e giustizia sociale. Non c’è molta scelta». Insieme a un gruppo di “gente comune”, pensionati, studenti, Marjana si infila in una traversa laterale dove si può assistere al trionfo di Nikolaj Kokhanisvskij, gigantesco leader del battaglione nazionalista On, cranio rasato e occhi azzurri che si erge su un tappeto di vetri rotti e calcinacci davanti a una telecamera della tv di stato per proclamare: «Ho dato io l’ordine. Questa è una sede della russa Alfabank che continua a far soldi nonostante la guerra. Abbiamo devastato anche una filiale della moscovita Sberbank e gli uffici dell’oligarca Ahmetov, amico di Putin».
La folla approva. Il controsenso è evidente. Dopo due anni di guerra, sanzioni, minacce, quelli che fanno i soldi sono sempre gli stessi. Intanto lo stipendio annuale medio è sceso da 3500 a 2000 dollari. Triplicati riscaldamento e tasse comunali. Natasha, bionda professoressa di lingue, confessa: «Ho rinunciato al sogno della mia vita, una cattedra di spagnolo all’Università. Mi offrivano 55 dollari al mese e io ne pago 45 solo di gas. Meglio fare traduzioni in nero per i tanti ricchi che ci sono sempre».
Gli uomini portati al potere dai cento morti del 20 febbraio scorso, dopo la sparatoria che portò alla fuga del Presidente Yanukovich, non hanno cambiato niente. Il Presidente Poroshenko, re del cioccolato, ha esteso la sua catena di negozi in città e, cosa più dura da spiegare alla gente, possiede una fabbrica di dolci a Lipetsk e un’azienda di ricambi auto a Stavropol. Nella nemica Russia.
Ahmetov, presidente dello Shaktar di calcio di Donetsk, filorusso, continua a far soldi nel petrolio insieme a oligarchi come Firtash e Kolomoiskij che hanno foraggiato le truppe volontarie nazionaliste anti-russe nella guerra all’Est. E al centro di questo tappo di corruzione, secondo la procura generale ci sarebbe il premier Jatsenjuk, che qui tutti chiamano “l’uomo di Obama”, accusato da tutti i partiti ma salvato l’altro ieri in Parlamento dalla misteriosa sparizione di una decisiva ventina di deputati al voto per l’incriminazione. Né si vede un leader politico nuovo all’orizzonte.
Ci prova, forse, l’eterna Yiulia Tymoshenko uscita prudentemente dalla maggioranza di governo. Intanto però si occupa del look, ha sciolto la mitica treccia bionda e fatto un poderoso lifting al viso. Ieri ha evitato di prendere posizione.
Ce n’è abbastanza per scatenare le decine di migliaia di reduci dalla guerra, infarciti di confusi concetti come “Patria” “Onore” e “Dignità”, tornati a casa senza trovare collocazione sociale e lavoro. E che non sanno fare altro che “rivoluzioni”. Ma in nome di che questa volta? Dell’Europa?
No perché si è rivelato un sogno troppo lontano. «E nemmeno dell’America perché a un tratto ha smesso di aiutarci, forse per paura di Putin – spiega l’ ex insegnante Vlad veterano di Cuore Nero, gruppo similnazista tra i tanti – Ma non è più tempo di ideali. Il primo passo è far fuori tutti i disonesti». Il gruppetto di “gente comune” che lo ascolta approva. Ma ha paura.