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 2016  febbraio 22 Lunedì calendario

Il concorso nazista per comporre l’inno del lager di Buchenwald

Johann Strauss, quello dei mitici valzer viennesi, fu invitato in America a dirigere il Giubileo delle Nazioni e fu un evento grandioso e magniloquente: il Danubio blu, l’orchestra con migliaia di elementi, i colpi di cannone, gli isterismi hollywoodiani, le donne che pietivano ciocche di capelli e lui che però non aveva abbastanza capelli, e allora spediva riccioli di cane. Riuscì a mettere d’accordo il coro più incredibile della storia, quasi ventimila cantanti. Fu irripetibile. Era il 1872.
Strauss era austriaco. E – pare – era ebreo. Così pure erano austriaci i musicisti Fritz Beda-Lohner ed Hermann Leopoldi: e quando offrirono loro di comporre un’opera destinata a un coro di undicimila persone, alla stregua di com’era capitato a Strauss, non poterono tirarsi indietro. Entrambi avevano conosciuto il velluto dei teatri, l’odore dei belletti, la violentissima luce dei riflettori. Beda-Lohner, un boemo, era un affermato compositore di testi nonché un conosciuto librettista di operette; Leopoldi invece era nato a Vienna e componeva canzoni alla moda nel periodo in cui impazzavano il foxtrot e l’one-step; i suoi spartiti erano stati pubblicati nei fascicoli di musica viennesi e berlinesi e americani, e una delle sue operette contiene una melodia notissima ancor oggi: «Tu che m’hai preso il cuor / sarai per me il solo amor».
Non poterono tirarsi indietro: anche perché li avrebbero fatti fuori.
In quell’inverno del 1938 tutti i lager avevano ormai un proprio inno, una loro canzone: e a Buchenwald invece niente. Il capo, il cosiddetto lagerfuhrer, certo Arthur Rodl, uno sempre alticcio, era imbarazzato e furibondo: che i prigionieri si dessero da fare. Per la preannunciata Canzone di Buchenwald furono messi in palio dieci marchi.
DECINE DI OPERE RESPINTE
Forse però il lager va un minimo descritto. Buchenwald è una località della Turingia, e significa letteralmente bosco di faggi. Venne istituito come luogo di punizione per detenuti politici e divenne uno dei più vasti campi di concentramento della Germania nazista, raggiungendo il massimo affollamento nel 1944 con oltre centomila internati. È stato uno dei campi affidati alla autogestione da parte dei “triangoli verdi” (i delinquenti comuni) e fu il campo dove maggiormente fu sperimentato l’annientamento per mezzo del lavoro.
Al comando piovvero decine di opere improvvisate, tutte via via respinte. Nessuna delle proposte incontrava il favore della direzione. Sinché non spuntò il Buchenwalder Lagerlied appunto di Beda-Lohner e Leopoldi, e scelsero quello: ma tutto il merito se lo prese infine un cosiddetto kapò, un triangolo verde, uno di quei criminali comuni che facevano la guardia agli altri detenuti. Si chiamava Fritz Gruebau, come appurerà il processo di Norimberga: si prese i dieci marchi. Nessuno osò smentirlo.
Poi, un giorno, dopo l’appello serale, con una temperatura freddissima e la neve abbondante, Rodl ordinò: «E adesso cantate la Canzone di Buchenwald». Quelle undicimila persone tutte in piedi, Rodl ubriaco fradicio, e un inferno nell’inferno in cui ciascuno cantava per conto suo: fu uno strazio. Il lagerfuhrer ordinò che i vari blocchi di prigionieri si esercitassero separatamente per poi ricongiungersi, ma il frastuono si fece ancor più sfasato e intanto le ore passavano, e il freddo aumentava. Alla fine Rodl volle dirigere tutti personalmente, strofa per strofa, e a ogni errore si ripeteva tutto da capo. La canzone diceva: «Buchenwald / non potrò mai dimenticarti / sei il mio destino / solo chi può lasciarti / può sapere / quanto meravigliosa sia la libertà».
La storia delle prove nel gelido inverno tedesco è stata raccontata da più soggetti: la scena di uomini affamati e al gelo nella luce abbagliante e nella neve alta di un bianco abbagliante si è scavata nella memoria di chi vi partecipò. Il direttore del campo, Rodl, «ubriaco fino a puzzare», continuava a pretendere che tutti ricantassero l’inno fino a quando non avesse funzionato: l’infernale concerto durò quattro lunghe ore sotto la violenza dei riflettori.
Questo mentre i riflettori delle sale da ballo berlinesi glorificavano Johann Strauss, anche se giusto due anni prima, nel 1936, nella Cattedrale di Santo Stefano, avevano trovato un vecchio certificato da cui si arguiva l’incontestabile origine ebraica di tutti gli Strauss. La Gestapo convocò i topi d’archivio e vietò loro di render noto il documento: il registro dei certificati fu confiscato e interamente copiato, dunque restituito alla Cattedrale privo della pagina riguardante Strauss. L’errore fu corretto, e l’originale saltò fuori solo alla fine della guerra. E si continuò a ballare.
E a Buchenwald, quella sera, a marciare. Dopo quattro ore nel gelo più rigido, come detto, Rodl impartì che tutti rientrassero nelle baracche, e in genere si rientrava a passo di strada: ma quella volta tutti vennero allineati in file da dieci e obbligati a marciare come in una parata, cantando e sfilando al cospetto dei vari comandanti ubriachi. I gruppi che non cantavano bene venivano obbligati a tornare indietro e quindi a ripassare davanti ai gerarchi. La neve era alta e brillava. La luce dei riflettori era violentissima.
LA MORTE DI FRITZ
A Buchenwald c’erano i forni crematori, alcune sale di dissezione, più altri scantinati con dei ganci fissati nei muri: i prigionieri venivano appesi e torturati a morte. Sugli internati si facevano esperimenti come sulle cavie; venivano fucilati a migliaia, e molti, impazziti per il dolore e per l’orrore di quella vita, quando uscivano per il lavoro, correvano deliberatamente oltre il cordone delle guardie cercando bramosamente la morte. A Buchenwald li sfracellavano con sassi, li affogavano nel letame, li frustavano, li affannavano, li castravano e li mutilavano. Nel block 50, i medici facevano esperimenti di ogni genere: la pelle dei prigionieri che avevano tatuaggi, dopo l’uccisione, veniva conciata e si diceva servisse per fare copertine di libri, paralumi e guanti.
Il compositore Hermann Leopoldi sopravvisse, e dopo la guerra riprese l’attività teatrale. Invece Fritz Beda-Lohner, nel 1942, secondo alcuni fu ucciso da una sentinella, secondo altri morì di fame.