Danco Singer per la Repubblica
Era il settembre del 1990, lavoravo nell’area della Ricerca Olivetti come responsabile dei rapporti con le università e i centri di ricerca. Il laboratorio dell’Olivetti di Pisa aveva appena realizzato un prototipo di computer multimediale, un personal computer, che collegato con un lettore di videodischi (grandi come un long play 33 giri) poteva proiettare sullo schermo disegni, fotografie, filmati: non più solo testi e numeri.
Lui mi guardò e mi disse: «Facciamo la storia del mondo».
Nacque così l’idea di fare un’opera enciclopedica unica nel suo genere in cui tutti gli strumenti conoscitivi e tutti i ”linguaggi” — testi, musiche, fotografie, disegni, filmati, citazioni — fossero intrecciati tra loro in un percorso infinito attraverso link che collegavano la storia, la musica, la filosofia, l’arte, la letteratura, la scienza.
Aveva già capito, prima di tutti, che sarebbe arrivato il World Wide Web. E come mi disse e scrisse molti anni dopo, rimettendo mano all’introduzione della sua Encyclomedia — Storia della Civiltà Europea —, «il primo servizio che un ipertesto come Encyclomedia rende ai propri utenti (studenti, insegnanti, studiosi, o anche semplicemente persone curiose che vogliano sapere qualcosa di più sul secolo in cui hanno visto agire, al cinema, i tre moschettieri) è quello di farli “navigare”, con pochi movimenti delle dita, nel tempo e nello spazio». Internet, come lo conosciamo oggi, non c’era ancora.
In queste poche righe di Umberto Eco c’è tutta la curiosità, la cultura, il gusto per il nuovo, l’ammirazione per la tecnologia, il desiderio di conoscere e parallelamente l’interesse a rivolgersi a tutti, studiosi o semplicemente curiosi, studenti e insegnanti. Sapere, capire, conoscere, raccontare, scoprire, inventare, stupire: qui c’è secondo me l’essenza di Umberto e della sua capacità di dire in modo semplice e chiaro, a tutti, cose difficili e complesse anche per pochi.
Forse uno dei momenti più significativi del percorso culturale, personale, professionale che ho avuto la fortuna di fare con Umberto è stato quando il 21 ottobre del 2013 abbiamo incontrato al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite il Segretario generale dell’Onu Ban-Ki-Moon e poi Eco ha tenuto la sua lectio magistralis a tutti i rappresentanti mondiali “Contro la perdita della memoria”.
In quei giorni a New York, mentre beveva il suo amato Martini seduti al caffè del nostro albergo, abbiamo costruito anche quel grande appuntamento culturale che è il Festival della comunicazione di Camogli. Grande per due motivi: perché si parlava di comunicazione, di linguaggi, filosofia, futuro, tecnologia e grande perché aveva chiamato intorno a sé i più grandi personaggi della cultura, dell’economia, della società italiana per ascoltarli e condividere con tutti loro la passione del sapere e del capire.
(Danco Singer, direttore editoriale di Em Publishers, ha ideato con Umberto Eco il progetto Encyclomedia e il Festival della comunicazione di Camogli)
Paolo di Stefano per il Corriere della Sera
Ogni sera suo padre Giulio, ad Alessandria, gli raccontava la puntata di una storia senza fine, il cui protagonista era un fagiolino. E anche lui ai suoi figli, Stefano e Carlotta, raccontava una storia senza fine con tre orsi che giravano il mondo in pallone. Se gli si chiedeva da dove veniva in lui il desiderio di scrivere romanzi, Umberto Eco rispondeva che siccome i suoi figli sono diventati grandi, non avrebbe potuto fare altro che scrivere romanzi per esercitare la funzione fabulatrice che lo aveva accompagnato per tutta la vita. Se invece gli si chiedeva il perché della sua produzione scientifica, rispondeva che la scrittura è la prova del fuoco del pensiero e che finché un’idea che hai in testa non viene messa sulla pagina non puoi capire se ha un filo logico.
Eccoli lì i due Umberti Echi, spiegati in modo apparentemente inequivocabile. Ma le cose sono più complesse, intanto perché gli Umberti Echi sono più di due. Poi per capire le ragioni che lo hanno spinto, nel 1978, verso i romanzi avrebbe dovuto chiedere allo psicanalista che non aveva mai avuto. Il filo rosso delle sue varie attività va rintracciato in una frase del suo maestro, il filosofo Luigi Pareyson: ciascuno di noi nasce con un’idea in testa e per tutta la vita non fa che girarvi intorno. Gli sembrò, sulle prime, un principio reazionario, poi però, in età matura, dovette convenire: «Anch’io — diceva Eco — non faccio che rincorrere da una vita, ossessivamente, una stessa idea centrale, salvo che non so dire quale sia».
Sosteneva che il carattere scettico e disincantato della sua città, Alessandria, avesse inciso in modo determinante nel suo modo di scrivere e di pensare. C’era anche un senso del dovere che, come si capisce leggendo il suo romanzo più autobiografico ( Il pendolo di Foucault ), alimentò il suo impegno precoce nell’Azione cattolica, condotto (e sofferto) fino alle porte dell’età adulta. Precoce, in realtà, Eco lo fu anche nella scrittura creativa (tutt’altro che vocazione tardiva, come molti gli rimproveravano): infatti ricordava che, bravo in italiano e pessimo in matematica, sin dai 10 anni aveva cominciato a scrivere romanzi d’avventura, o meglio, i primi capitoli, illustrazioni comprese. Ma poi smetteva.
La laurea, con una tesi a Torino sull’estetica di san Tommaso d’Aquino, la consegue a 22 anni, da vero secchione. Disse ironicamente che fu Tommaso a compiere il miracolo di guarirlo dalla fede. In Rai a Milano, dal 1954 al 1958 con Gianni Vattimo e Furio Colombo, disse di non aver fatto nulla di veramente interessante: in realtà fu l’occasione per avvicinarsi ai meccanismi televisivi e alla comunicazione di massa, che saranno tra i suoi cavalli di battaglia semiologica. È questo il passaggio che farà la differenza tra Eco e i suoi quasi coetanei accademici: l’avere conosciuto la tv dall’interno avrebbe poi contribuito alla nascita di saggi memorabili per intelligenza inventiva. Nel 1964 mandò Apocalittici e integrati a Montale con un auspicio: «Spero che La irriterà». La passione per Superman e per i Peanuts, la lettura infantile di Salgari si mescolavano con l’interpretazione di Manzoni, Joyce, Hemingway.
È in corso Sempione che Eco incontra i compositori Bruno Maderna e Luciano Berio: attraverso la musica d’avanguardia si avvicina alla fonologia, alla linguistica, allo strutturalismo nascente (l’ Opera aperta è del 1962). È sempre lì che conosce anche la Milano della critica e della poesia: Luciano Erba, Bartolo Cattafi, Glauco Cambon, Luciano Anceschi, con il quale partecipa alla fondazione della rivista «Il Verri», primo nucleo del Gruppo 63. Alla Rai incrocia per la prima volta Angelo Guglielmi, che sarà uno dei teorici della neoavanguardia. Intanto, Eco non molla gli studi scientifici. D’altra parte, nel solco delle mitologie di Roland Barthes, non ha mai abbandonato gli strumenti d’indagine più acuminati anche nell’affrontare i fumetti, la canzone o la narrativa di consumo. Era un obiettivo per così dire politico: «decostruire» la comunicazione di massa significava fare controinformazione (ironica) all’invadenza dei persuasori occulti.
Durante il servizio militare impugna il fucile una sola volta, per provare la mira, e dopo 18 mesi, nel 1959, è già alla Bompiani, dove sarà editor fino al 1975, in pratica imitando l’esperienza di tanti grandi intellettuali e scrittori da Pavese a Calvino a Sereni e altri. Allo zio Val, ovvero a Valentino Bompiani, Eco rimarrà fedelissimo come autore e come dirigente: con un gruppo formidabili di editor, da Nanni Filippini a Paolo De Benedetti, a Leo Paolazzi in arte Antonio Porta. «Esperienza decisiva e indimenticabile». Le lettere con l’editore meriterebbero un volume: l’abbandono della Bompiani, con la minacciata nascita della cosiddetta Mondazzoli, sarà certamente stata dolorosa, ma il varo della Nave di Teseo ha appagato il suo spirito pionieristico.
L’incontro con la semiotica letteraria, con lo strutturalismo francese, con il magistero di Roman Jakobson, la coincidenza di interessi che nasce in Italia attorno alla scuola di Tartu, la divaricazione rispetto alla «semiotica filologica» di Segre e Corti (non era amatissimo dai filologi): tutto ciò mentre Eco si avvicina allo sperimentalismo di Sanguineti, di Manganelli e di Balestrini, contribuisce agli incontri del Gruppo 63 e soprattutto con i suoi saggi viene sempre più tradotto all’estero. Senza mai abbandonare la voglia di intervenire nei giornali sul «costume di casa» (la sua collaborazione al «Corriere» comincia con l’inserto letterario di Emanuelli nel ’63, poi Eco prosegue con la «Repubblica» e con l’«Espresso»). Nel ’75 è titolare di Semiotica generale all’Università di Bologna, da lì passa come ospite in vari atenei stranieri, francesi, americani, tedeschi. Tra i suoi meriti (alcuni dicono: tra i suoi demeriti) c’è la nascita del Dams. Tra i suoi meriti meno contestati c’è anche la fondazione del mensile «Alfabeta», che mette insieme, dal 1979 al 1988, generazioni diverse di critici, militanti della sinistra estrema e del Pci, poeti, filosofi, filologi, scrittori e critici diversi, da Porta a Volponi, da Maria Corti a Cases, da Leonetti a Rovatti a Calabrese. Sono i suoi amici.
È in questa temperie che Eco matura il bestseller. Pare che una sera, finita una riunione di «Alfabeta», abbia confessato a Paolo Volponi di avere appena concluso un romanzo. Titolo: Delitti all’abbazia . L’amico gli fece cambiare idea: meglio Il nome della rosa . Eco, che in un primo momento avrebbe voluto farne un’edizione limitata per gli amici, si augurava che non si trasformasse ne Il nome della resa . Fu un successo planetario. L’astro di Moravia, in Bompiani, era in calo, ed Eco ne raccolse il testimone. In Francia, l’editore dei suoi saggi, François Wahl di Seuil, gli disse: «No, Umbertò, sbagli», e respinse il romanzo, facendo la fortuna di Grasset. Una «zuppa medievale», la definì Piergiorgio Bellocchio. Eco aveva anche i suoi avversari irriducibili. Era un postmoderno che amava divertirsi con la citazione e la narrazione metanarrativa. Era all’avanguardia anche tecnologicamente: fu uno dei primi a capire la rivoluzione digitale (e uno dei primi scrittori italiani a usare il computer), ma non amava internet. Tanto meno i social: «Danno la parola a milioni di imbecilli. E la socievolezza è un’altra cosa».
Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera
Eco significa Ex coelis oblatus , donato dal cielo; «per fortuna l’impiegato dell’anagrafe che registrò la nascita di mio nonno era di animo gentile e amava il latino. Altrimenti mi sarei chiamato Ficarotta» raccontava sorridendo. Il padre non era un barone universitario: aveva un negozio di ferramenta ad Alessandria. Lui ebbe un grande maestro in Luigi Pareyson, che però come erede gli preferì un altro ragazzo prodigio, Gianni Vattimo. Umberto Eco era il figlio dell’Italia affluente del dopoguerra, un’Italia di provincia dove l’eccellenza non era data dalla nascita e dalle relazioni personali ma dal talento e dal lavoro: tra gli altri «ragazzi di via Po», Vattimo era figlio di un poliziotto calabrese e di una sarta, Furio Colombo di un impiegato dell’editore Lattes; qualche anno dopo si aggiunse al gruppo un formidabile studente di Trieste, Claudio Magris.
La guerra per il giovane Eco passò in campagna, dove si raccontavano storielle in dialetto piemontese per vincere la paura dei bombardamenti e si ascoltava di nascosto Radio Londra (il Sandokan della sua adolescenza fu Franchi-Edgardo Sogno, il destinatario dei messaggi in codice degli inglesi). Nei primi anni del dopoguerra va a Torino solo per i concerti; una sera, mentre suonando l’ocarina aspetta il treno per Alessandria, si avvicina un vecchio che lo invita a salire in casa; lui fugge via spaventato. A Palazzo Campana, dov’era l’università di Torino, incrocia Norberto Bobbio, Nicola Abbagnano, Augusto Del Noce, Augusto Guzzo, il filosofo — di cui ha lasciato una caricatura nell’ultimo libro, Numero zero , pubblicato il giorno del suo ottantatreesimo compleanno — che costringeva gli assistenti a registrare le sue lezioni con il magnetofono e a trascriverle in bella copia. Vince il concorso per il collegio universitario: i «nonni» lo obbligano a disegnare papiri osceni per usi goliardici, lui accetta ma a una condizione: «Solo culi, niente falli; sapete, sono cattolico». Quando tocca a lui rifarsi sulle matricole, le costringe a lustrarsi il sedere con il lucido da scarpe fischiettando la Sinfonia classica di Prokofiev.
Fin dall’inizio Eco è affascinato dal pensiero medievale e dai nuovi linguaggi. Tra Torino e Milano in quegli anni nasce la televisione; e Umberto, con Colombo e Vattimo, è tra i «corsari» che entrano nella neonata Rai per concorso (anche se non è vero che abbia scritto le domande per Lascia e Raddoppia di Mike Bongiorno, di cui ha firmato la Fenomenologia). Insieme i «ragazzi di via Po» entrano anche nell’Azione Cattolica, tentando — invano — di deviarne il corso verso il centrosinistra.
Eco si innamora, corrisposto, della prima star della televisione italiana: Enza Sampò. Lei è avvinta dalla sua intelligenza e dalla sua cultura, anche troppo: una volta lui la rimprovera perché ha storpiato il nome di un pittore, Mignaco per Migneco; Enza si sente inadeguata, e lascia Umberto per un ragazzo siciliano di bell’aspetto che non crea troppi problemi: Emilio Fede (lascerà anche lui quando troverà sulla sua macchina sportiva gli occhiali da sole di un’altra donna).
La Milano di Eco è quella di Brera, del Giamaica, del Blu Bar: filosofi come Enzo Paci e Carlo Augusto Viano, artisti come Enrico Baj ed Emilio Tadini, musicisti come Luciano Berio, editori come Valentino Bompiani, che assume Umberto perché lo trova «curioso come una scimmia». Sul suo terrazzo di via Canonica, Eco invita i colleghi della Rai e dell’università ma anche cantanti, attrici, ballerine come la cubana Marshall, con cui ha una storia d’amore; una sera arriva Juliette Greco, che viene scarrozzata per Milano sulla Topolino di Furio Colombo. A volte Eco organizza feste a tema, in cui esercita la sua passione per il divertissement intellettuale: la sera del martedì grasso del Carnevale 1956 ci si traveste da composizioni musicali; lui si presenta in veste da camera, con un romanzo giallo in tasca, uno stuzzicadenti in bocca, un asciugacapelli legato alla testa e un cartello con il titolo: L’apres-midi d’un phon .
Comincia allora una lunga ricerca, nasce anche in Italia una nuova scienza che studia i segni nella letteratura; sino al successo mondiale del Nome della Rosa, pubblicato il giorno del suo quarantottesimo compleanno. Alla base c’è un’idea coltivata fin dalla giovinezza, in sintonia con il «pensiero debole» di Vattimo: l’uomo è misura di tutte le cose, la verità assoluta non esiste, i grandi sistemi filosofici, religiosi, ideologici sono destinati a crollare o a sfaccettarsi sotto l’incalzare della modernità; e «nell’infinita vertigine dei possibili, Dio vi consente anche di immaginare un mondo in cui il presunto interprete della verità altro non sia che un merlo goffo, che ripete parole apprese tanto tempo fa» come dice Guglielmo da Baskerville — nome scelto pensando a Conan Doyle — nel memorabile dialogo finale con Jorge da Burgos, nome scelto pensando a Borges. E di tutto si può ridere: il riso è proprio dell’uomo, perché l’uomo è l’unico animale che sa che deve morire. Della morte Umberto Eco ha riso sino all’ultimo, bevendo whisky, mangiando noccioline e raccontando storielle in dialetto piemontese.
Gianni Riotta per la Stampa
Alla prima della Scala, salendo un gradino dopo l’altro, a Umberto Eco venne il fiatone e serissimo scandì «Eh, non abbiamo più settant’anni!». Uno spirito fanciullesco, timido, dietro l’aplomb dell’intellettuale famoso. Il nome della rosacelebra proprio il mistero del secondo libro perduto della Poetica di Aristotele, dedicato alla commedia, che il monaco Jorge da Burgos avvelena pur di tenere il mondo nella cupezza e nell’astio livido. La tolleranza, per Eco, era imparare a sorridere.
Umberto Eco era un intellettuale rigoroso, nel suo Come si fa una tesi di laurea del 1977 insegnava ai malmostosi studenti dell’anno di rivolta come si studia, li incitava a essere perfetti anche nelle note a piè di pagina. La sua allegria scanzonata era detestata dalla tradizione conservatrice, avversario più severo Pietro Citati, ma Eco, nell’ultima stagione di vita, si vide affrontare dal populismo unito, la destra non gli perdonò le critiche a Berlusconi, il sottobosco di sinistra le critiche al qualunquismo via web.
Non se ne curava, «ho lavorato a far nascere la cultura online», mi spiegava, «con te e Danco Singer abbiamo fondatoGolem, prima rivista online già nel 1996! Ma, insisto, sul web vale il rigore culturale, come in biblioteca». Passò quindi a spiegarmi perché non usare il termine «incunaboli» in un certo racconto, dettava il corsivo al Manifesto al volo, battezzando il segretario del Msi «Giorgio Fucile Almirante» ma, con lo pseudonimo Dedalus, polemizzando anche con Pasolini su aborto e omosessuali. Condivideva con Furio Colombo - il suo amico migliore - il segno zodiacale del Capricorno, ma avevano opposti caratteri. Ho visto i due Capricorni preparare le valigie insieme, ordinatissima quella di Furio, un caos informale quella di Umberto. Ma entrambi insegnavano a lavorare 24 ore al giorno, usando l’esperienza per capire il mondo. Nel 1984 ho seguito Eco in America per il lancio del Nome della rosa, in aereo scriveva freneticamente, erano già gli appunti per Il pendolo di Foucault. Andava alla Columbia University a parlottare con il decano degli architetti Mario Salvadori, grande amico del musicista d’avanguardia Luciano Berio. Mario spiegò a Eco un teorema sul pi greco e il pendolo doppio, da quella scintilla partì il romanzo, «Il nome della rosa invece ho preso a scriverlo perché avevo voglia di uccidere un monaco…».
Eco, Salvadori, Berio, maestri del ’900. Eppure, una Pasqua, per rallegrare mio figlio bambino, Renate, la moglie di Eco studiosa di teatro dei burattini, mise su uno spettacolo con le marionette, Eco a suonare il flauto dolce, suo strumento prediletto, Berio a comporre una sinfonia sul pianoforte giocattolo, Furio e Alice Colombo a interpretare i personaggi della fiaba.
La fama non spense mai questa allegria disincantata. Mi raccontò di avere incontrato un giovane Berlusconi in cerca di consigli per le tv dal grande studioso di mass media, «poi fece il contrario di quel che dicevo e diventò ricco…», ma quando gli chiesi conferma dell’aneddoto a Rai Storia, ghignò: «Leggenda metropolitana». Si rese conto presto che il web è un nido per i complotti, spiegando al Corriere(http://goo.gl/7V0Yhg) che il nichilismo mina il XXI secolo. Ai tempi del primo governo Prodi, 1996, Walter Veltroni sperava che la presidenza della Rai andasse a lui, ma rifiutò con le stesse parole usate per dire di no alla candidatura a sindaco di Milano 1993: «Sono un barone, abituato a sentirmi dire di sì, in politica bisogna accettare troppi no».
Quando Bill Weaver tradusse Il nome della rosa gli disse schietto: «È meglio scritto in inglese che in italiano», e Bill rideva: «Grazie ai diritti ho ricostruito casa!». Appena sbarcava a New York, la sua amica Barbara Jakobson del Moma dava un party. C’erano i designer Massimo e Lella Vignelli, Carlo Di Palma, direttore della fotografia di Antonioni e Woody Allen, i Colombo, a volte il vecchio Stille. Umberto beveva Martini cocktail, «testimonianza di civiltà», accendeva una sigaretta e rauco teneva lezione: «I complotti funzionano così. Sei chiuso in un ingorgo sull’autostrada, tutti imprecano, colpa del ministro, colpa delle riparazioni, colpa dei Tir, ma la “colpa” è di nessuno, solo migliaia di auto in coda. I terroristi sfruttano l’ingorgo mediatico, ma il primo libro sui complotti è l’Iliade, rissa degli dèi, colpa loro mica di achei e troiani! Poi colpa dei cristiani che bruciano Roma, dei cavalieri templari, dei massoni. Ricordi il terrorismo italiano? Si parlava di “Grande Vecchio” perché trentenni inesperti non potevano progettare il rapimento di Moro. Quando li han presi ci siamo accorti che erano trentenni, il Piccolo Giovane aveva messo in crisi la Repubblica. Perché la teoria del complotto nasconde la realtà, non la illumina».
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Matteo Collura per Il Messaggero
“Il professore”: così lo chiamavano tutti. Eco era “il professore” per eccellenza: per la portinaia, il barista, l’edicolante, i giornalisti che lo intervistavano, per chi, incontrandolo per strada, lo riconosceva. Lo era, naturalmente, anche per gli accademici, ma con quel po’ di disappunto che si ha nei confronti del collega che scherza un po’ troppo con il proprio magistero.
Proviamo a dirlo diversamente: Eco era un professore rimasto dall’altra parte della cattedra, più studente che insegnante, perché il suo carattere lo portava a trattare qualsivoglia argomento dello scibile come un qualsiasi tema di studio, ma soprattutto di conversazione. Per questo, in Italia, fu il primo a collegare la filosofia con il fumetto, a non sottovalutare la letteratura di massa, la televisione, l’enigmistica, tutto ciò che i paludati intellettuali e i professoroni consideravano e considerano scarti dell’intelletto, inutili sprechi di tempo.
GLI INCONTRI
Si è detto di lui che non aveva la “libido docendi”, infatti le sue lezioni universitarie non avvenivano mai ex cathedra. Gli piaceva insegnare perché gli piaceva parlare, con condimento di battute, iperboli, divagazioni. Di questo posso fornire testimonianza, perché con “il professore”, in questi ultimi anni, ci si vedeva al bar un paio di volte la settimana, per parlare di libri e letteratura, vale a dire della vita.
Gli incontri avvenivano a Milano, in un caffè di via Dante, non lontano dalla casa di Eco, affacciata sul Castello Sforzesco. Vi facevano parte gli affiliati a un’associazione di bibliofili, l’Aldus Club, così chiamato in memoria del grande tipografo Aldo Manuzio. Lui ne era il presidente (onorario, negli ultimi giorni, considerato il suo stato di salute).
In quei pomeriggi, un bicchiere di Martini dry a portata di mano, Eco si divertiva a esercitare il suo indiscusso ruolo di professore, ma nel modo a lui più congeniale. Vale a dire con ironia, allegro pettegolezzo, leggero disimpegno. E qui sta il suo insegnamento forse più importante: il momentaneo disimpegno fa grandi gli uomini che vivono d’impegno intellettuale.
GOLIARDIA
Si è sempre detto che Eco è rimasto un goliarda. E lui in pubblico, e forse anche in segreto, se ne compiaceva. Gli piaceva giocare nell’eterno ruolo di junior, la battuta pronta, la barzelletta fresca d’invenzione. Era un instancabile cultore di barzellette, ma questo non abbassava minimamente la sua autorevolezza di grande intellettuale, il più importante nell’Italia degli ultimi decenni. Al bar, nei pomeriggi di cui ho detto, tirava fuori le barzellette “dedicate”, vale a dire adattate a ognuno dei suoi interlocutori. A me, siciliano, ne destinava una con protagonisti siciliani; a un piemontese un’altra, con tipiche situazioni piemontesi.
LE ORIGINI
Si vantava di essere un piemontese di Alessandria, nato cioè in una terra tutta concretezza e resistente alla facile mitologia. «Povera di leggende, Alessandria si è affrettata a dimenticare anche la Storia, che le è passata sempre di fianco, senza che i cittadini si sporgessero per toccarle la falda del mantello», scriveva cinquantuno anni fa. E aggiungeva: «Alessandria non ha mai sentito il bisogno di imporre un Verbo sulla punta delle armi; non ci ha dato modelli linguistici da offrire agli speaker radiofonici, non ha creato miracoli d’arte per cui far sottoscrizioni, non ha mai avuto nulla da insegnare alle genti, nulla per cui debbano andar fieri i suoi figli, dei quali essa non si è mai preoccupata di andar fieri».
DISTACCO
Volete ci si possa lasciare impressionare con simili natali? Ecco da dove veniva anche l’ostentato distacco di Eco da tutto, quel suo giocare a non prendere mai nulla su serio.
Ma l’autore di un capolavoro letterario come Il nome della rosa non può non avere, oltre all’immenso sapere, anche grande cuore, calda umanità. Quando un paio d’anni fa, Mario Scognamiglio, segretario e rimpianto animatore dell’Aldus Club, sentì di approssimarsi alla morte, volle riunire i suoi amici bibliofili (Eco tra questi) per dare loro, socraticamente, un ultimo saluto. Avvenne in una sala appartata di un caffè milanese. Ero stato invitato anch’io. Scognamiglio volle concludere l’incontro con una richiesta a Umberto Eco che lì per lì mi sembrò impertinente: la lettura ad alta voce del Cantico delle Creature di Francesco d’Assisi. Scognamiglio gli allungò un foglietto, Eco lo prese e lesse. E fu una meravigliosa musica di parole, impeccabilmente pronunciate dallo scrittore, grazie alla sua conoscenza del mondo medievale.
Un ultimo ricordo. Quando nel 2004 una delegazione dell’Aldus Club si recò ad Alessandria d’Egitto per donare dei volumi (alcuni preziosi) alla riedificata Biblioteca di quella città, Umberto Eco faceva parte del gruppo. Si andò in pullman da Il Cairo ad Alessandria. Lungo la strada, gli immancabili cori, come quando si è in gita tra studenti o tra impiegati in viaggio premio. Era Eco, ricordo, a dare il via ai canti, con contagioso entusiasmo.
Per la cronaca, “il professore” donò alla Biblioteca di Alessandria un raro incunabolo.
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Furio Colombo per il Fatto Quotidiano
La cosa più disorientante è che non riesco a liberarmi da questa impressione: sto andando a Milano per parlare con Eco della morte di Eco, e rivedere insieme quella marea di cose fatte che richiedono una grande mente per essere narrate con ordine e restituire a ciascuna il senso che ha avuto. E quando ti rendi conto che non funziona così, comincia a insediarsi il lutto, che a colpi, a scatti, a sorprese (un po’ i ricordi, un po’ i fatti) si rivela un’esperienza assurda. Non c’è rifugio, ma fai barricata coi ricordi. I giorni di Eco sono talmente tanti che non corrispondono a un calendario e non sono la somma del tempo vissuto.
Sono strisce di cose pensose, festose, inattese, tra cultura e invenzione, tra erudizione profonda e battuta azzeccata, tra diario e anticipazione (potrei anche dire “profezia”, ma temo il suo piemontese rancore verso la retorica e la celebrazione) che non puoi fare un tuo personale bilancio, per quanto ti proclami “amico di una vita”.
È vero, sarebbe un modo di fronteggiare il peso eccessivo di ciò che è appena accaduto (Umberto Eco è morto) e che è un controsenso, con quel tipo di vita che, come certi film, non si presta al riassunto. Potresti dire che lo conosci da tanto. Ma quel tanto poi lo devi moltiplicare per tanti modi di essere, agire, capire, lavorare, pubblicare, esistere; e lasciare impronte in parti del sapere e in parti del mondo; e dentro culture diverse, che allargano enormemente lo spazio, finchè persino tu, che credi di esserci sempre stato, sei un punto fra altri che hanno partecipato o testimoniato di una vita che ha stupito molto, ha creato ammirazione e sorpresa mentre scorreva e dava l’impressione di durare sempre. Mi ricordo due scene sul treno della Cina, destinazione Pechino, sulla via della seta, tanti anni fa (come dirò ai suoi nipoti). In una siamo seduti per terra in un treno affollato, circondati di bambini perché stavamo cantando canzoni alpine italiane. I bambini cinesi, abbastanza intonati, si accodavano, al punto che Eco (che sa di musica e suona parecchi strumenti) ha cominciato a insegnare, far ripetere, dirigere, e dopo un po’ tutto il vagone seguiva. In un’altra scena, alcuni di noi erano il pubblico di una disputa linguistica fra Eco e i giovani professori cinesi che ci guidavano. E il tema della discussione – in inglese – era quella specie di altarino che nell’ideogramma cinese si disegna sotto le parole riferite al potere: sono un gradino? Un altare? Un atto dovuto?
La Nave di Teseo è stata l’ultima avventura vissuta insieme. Come ai tempi della Rai (ricordate? Il concorso), come ai tempi del Gruppo 63 a Palermo, come ai tempi del Dams a Bologna, come ai tempi del viaggio in Cina, come ai tempi della Academie des Culturers presieduta da Elie Wiesel, dove si discuteva e lavorava ogni anno, a Parigi, con Jacques LeGoff, Toni Morrison, Wole Soynka, Luaciano Berio.
Umberto e io avevamo l’impegno di preparare per l’Academie un programma scolastico online di educazione alla pace per le scuole elementari. Come ai tempi dell’Istituto di Cultura di New York, che allora io dirigevo, dove dialogavano con lui, di volta in volta, (“le conversazioni in pubblico”) Susan Sontag o Vanessa Redgrave. Come alla Columbia University, dove un 25 aprile è stato celebrato da Umberto insieme a Giorgio Strehler, davanti a una folla di professori e studenti. Ma La nave di Teseo è stata forse l’evento più sorprendente e più giovane per uno scrittore che aveva già inondato il mondo con milioni di copie in tutte le lingue, ma non ha permesso di cambiare l’editore storico italiano per ragioni commerciali che non lo riguardavano. “Io non sono in vendita”, ha detto al suo editore Bompiani (parte del gruppo in vendita RCS). E tutta la Bompiani, a cominciare dal suo capo, Elisabetta Sgarbi, e molti autori anche grandi e consapevoli del rischio, lo hanno seguito senza pensarci.
Al nipote teenager Emanuele –che spesso è stato compagno di conversazione del celebre nonno (nonno assoluto, fino al punto da andarlo a prendere a scuola quando il primo dei suoi nipoti era bambino) – che gli aveva chiesto: “Perché lo fate?” aveva risposto, da piemontese un po’ risorgimentale e privo di retorica: “Perché si deve”.
E adesso abbiamo la ragione per continuare, impedendoci però di dire che lo facciamo “in suo nome”, per evitare i fulmini del suo disappunto piemontese per le celebrazioni.
I flash di memoria – che giungono, com’è inevitabile, in disordine e non obbediscono alla sequenza del prima e del dopo – sono utili con Eco, a causa di un tratto unico della sua vita. Non è di quelli che maturano (come in tante biografie americane) e fanno mille mestieri e un po’ di frequentazioni sbagliate prima di diventare il genio. Umberto è saltato in scena allegro come si è allegri a vent’anni, niente affatto spaesato in un villaggio come la Rai, che non sapeva di essere già globale ma lo era, e si è accorto subito di abitanti molto strani e molto diversi, come Mike Bongiorno e Luciano Berio.
Negli stessi anni. che si potrebbe chiamare avanguardia dell’avanguardia, Eco ha scritto La fenomenologia di Mike Bongiorno e ha lavorato con Luciano Berio a quell’Omaggio a Joyce che è diventato il primo testo musicale della grande e bella produzione musicale di Berio, su lavoro letterario di Eco (quasi nessuno conosceva Joyce) e con la partecipazione, di cui mi vanto ancora, della mia voce.
Intanto John Cage, padre dell’avanguardia di tutti i luoghi, i generi e i tempi, veniva a mangiare con noi a casa di Berio (la moglie era allora Cathy Barberian, dalla voce indimenticabile) in attesa di presentarsi a Lascia o Raddoppia? come concorrente (alla fine vincente) nello show di Mike Bongiorno.
L’enciclopedismoche Umberto prescrive ai più giovani come fondamento del nuovo c’era già in pieno, nell’Eco giovane che non ha mai smesso di scrivere, di ridere, di insegnare e di trasformare la cultura alta in romanzo. C’era già l’idea della scuola che tutti vanno cercando, ripetendo a volte la sciocchezza dello studio simile il più possibile al lavoro, invece che formidabile esercizio di intelligenza. Ma è urgente, e questo è il punto duro e insopportabile del lutto, parlarne con lui.