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 2016  febbraio 21 Domenica calendario

Ancora in morte di Umberto Eco

Ezio Mauro per la Repubblica
Era “una bella mattina di fine novembre, nella notte aveva nevicato un poco” quando frate Guglielmo da Baskerville allo spuntar del sole venne avanti nell’Italia confusa del 1980. Il Paese aveva appena vissuto lo shock del delitto Moro, il punto più temerario della sfida terroristica alla democrazia, e l’inizio della sua caduta. Come su un terreno prosciugato, ripiegavano le Brigate Rosse e si ritiravano le ideologie, e noi entravamo senza bussola in un territorio sconosciuto. Ed ecco quel frate, amico di Occam e di Marsilio da Padova, che si mette in cammino sette secoli fa, procede per sette giorni e 576 pagine insieme al novizio Adso da Melk, viaggia verso settentrione ma senza seguire una linea retta, tocca città famose e abbazie antichissime che incutono paura come fortezze di Dio inaccessibili, masticando le erbe misteriose che raccoglie nei boschi e scrutando di notte, dopo vespro e compieta, le magie stregonesche dell’orologio, dell’astrolabio e addirittura del magnete.
Davanti al successo mondiale del Nome della rosa, tradotto in quarantacinque lingue, Umberto Eco ebbe prima la ritrosia prudente dello studioso di fronte alla contaminazione mondana della scienza, poi seguì divertito il gioco delle sovra-interpretazioni, infine si dedicò alla teorizzazione a posteriori, smontando e rimontando sapere e consumo, letteratura e storia, il caso e il calcolo. Rivelò che tutto era nato da un’idea seminale, perché gli era venuta la strana voglia di avvelenare un monaco. Poi spiegò che scriveva con la pianta dell’abbazia sotto gli occhi, dando ai dialoghi il tempo necessario dei passi per andare dal refettorio al chiostro, perché occorre crearsi delle costrizioni per poter inventare liberamente. Quindi aggiunse che poiché scrivere un romanzo è una faccenda cosmogonica, il suo mondo naturale era la storia e il Medioevo, e questo ricreò nelle pagine. E infine disse l’ultima verità, intima come una confessione: volevo che il lettore si divertisse.
C’è quasi tutto Eco in questa spiegazione di un successo che è una mappa delle intenzioni, perché prima del successo c’è la sfida della grande divulgazione, la scommessa di non cedere alla banalizzazione del sapere ma nello stesso tempo la capacità di costruirsi lettori, accendendo una passione, portandosela dietro fino a scoprire l’eresia estrema, una risata come movente di un delitto. Eco c’è riuscito perché questo percorso rigorosamente controllato nella formazione del romanzo corrisponde perfettamente alla costruzione intellettuale di sé: dunque suona autentico, senza forzature.
Studioso fino alla fine, Eco infatti ha sovvertito l’ordine classico delle strutture accademiche con la nascita del Dams a Bologna, sperimentando sempre ma rimanendo in fondo fedele alla lezione di Pareyson, come se fosse giusto avere un solo maestro. Ma nel 1954 quella generazione un po’ speciale (pensiamo a lui, con Gianni Vattimo e Furio Colombo) ebbe la fortuna di incrociare la Rai nascente, per concorso e non per raccomandazione del sottobosco democristiano: fu naturale prolungare la propria analisi scientifica universitaria con la comunicazione di massa che si affacciava all’Italia, con i nuovi linguaggi, col visivo accanto al letterario, con il divismo sconosciuto del piccolo schermo, con la nuova tecnica che scusava l’ignoranza e la bypassava, fino a fare di Mike Bongiorno il modello perfetto dell’uomo televisivo, che creava per la prima volta un pubblico costituito, la grande tribù italiana del giovedì sera.
Era incominciato il grande incrocio che avrebbe fatto di Eco un personaggio unico, il primo scienziato capace di chinarsi sulla semiologia del quotidiano, curioso di tic e tabù individuali moltiplicati a fenomeni di massa dai nuovi strumenti di comunicazione, linguaggi e modi di dire, attraversati dal gioco di un calembour, riscattati da un paragone letterario sproporzionato perché ironico ma perfettamente coerente, come quando legava Franti con Bresci o portava Mickey Mouse a dormire a Mirafiori, parlando a Minnie in piemontese.
L’alto e il basso del post-moderno trovarono in lui non il primo interprete, ma il nucleo forte, che teneva insieme perfettamente i due registri e li legittimava a vicenda. Quel nucleo centrale, credo si possa nel suo caso riassumere in tre parole: cultura come passione. E il “libro” come strumento universale, il libro capace secondo lui di sfidare anche internet, perché il web in fondo – diceva – è un ritorno dalla civiltà delle immagini all’era alfabetica, alla galassia Gutenberg, all’obbligo di leggere, e non importa quale forma prenderà il supporto che continuiamo a chiamare “libro”.
Leggere «per il gusto di leggere» e non solo per sapere, come Eco scoprirà da bambino.
E dietro i libri, borgesianamente e naturalmente, la biblioteca.
Cinquantamila libri “moderni”, milleduecento volumi antichi di cui lo scrittore parlava con la passione di una scoperta continua. Senza un catalogo, mossi continuamente dalle emergenze del conoscere, dalla curiosità di un lavoro, dalla memoria che cerca conferma, sapendo che una biblioteca raccoglie i libri che possiamo leggere, e non solo che abbiamo letto, perché è la garanzia di un sapere. Col terrore antico degli organismi che divorano le pagine dei libri, e la vecchia ricetta che consisteva nel piazzare una sveglia negli scaffali, confidando nel rumore regolare e nelle vibrazioni per bloccare il pasto insano dei libri.
L’altro strumento indispensabile alla costruzione del fenomeno Eco sono i giornali, quotidiani e settimanali, mensili, riviste. Li ha criticati duramente, fino al suo ultimo romanzo, ma li ha sempre usati per indagare il quotidiano, per collegare gli scarti di costume della vicenda di ogni giorno con le categorie del suo sapere, capace di ordinare e battezzare i gesti minimi, inserendoli in una sorta di catalogo universale.
Si comincia dal 1959 con quei brevi saggi di costume parodistici pubblicati sul Verri che raccolti in volume daranno poi vita al famosissimo Diario minimo per arrivare finalmente alla Bustina di Minerva dell’Espresso. È come se il registro dell’attualità, grazie ai giornali, desse a Eco la possibilità di un controcanto, un suono appartato ma rivelatore, che scorre a fianco della grande vicenda nazionale ma la sa interpretare rovesciandola spesso nei suoi paradossi, svelandola nell’intimo dei suoi vizi o delle sue verità travestite da miserie del quotidiano.
Pastiches e parodie sono la recitazione in pubblico, ordinata letterariamente, del calembour privato, del motto di spirito che Eco ti diceva per prima cosa incontrandoti, sempre alla ricerca della rivelazione anagrammatica, della saggezza popolare che diventa enigmatica nel nonsense di un proverbio stravolto nel suo contrario, che continua beffardo a dirti qualcosa. Contraffazioni meravigliose, come i falsi rapporti di lettura dei redattori di un’immaginaria casa editrice che bocciano la lettura della Bibbia («un omnibus mostruoso, che rischia di non piacere a nessuno perché c’è di tutto»), di Torquato Tasso («mi chiedo come verranno accolte certe scene ero- tiche un po’ lascive») e dei Promessi sposi: «tant’è, non tutti hanno il dono di raccontare, e meno ancora hanno quello di scrivere in buon italiano».
Fuori dalla parodia, il sentimento dei giornali ha in realtà consentito a Eco di incrociare l’attualità e di decifrarla coi suoi strumenti, arrivando a un giudizio politico partendo da una notazione estetica, culturale, da un segnale del linguaggio individuale e collettivo. Gli ha consentito, a ben vedere, di prendere parte alla vicenda italiana negli anni più travagliati del Paese. Lo ha fatto senza badare al rischio (ben presente in molti altri intellettuali) di dividere con una presa di posizione politica il grande «fascio indistinto» dei suoi lettori, la somma trasversale della sua popolarità internazionale. Anche qui (e ricordo certe discussioni negli ultimi vent’anni) era come se fosse mosso semplicemente da un obbligo culturale, da un dovere intellettuale, perché la cultura, diceva Bobbio, «obbliga terribilmente». Naturalmente quando usò il paradosso, dicendo che la notte prima di addormentarsi preferiva Kafka piuttosto che rincretinirsi davanti alla tv, la muta dei critici di destra gli saltò al collo credendo di inchiodarlo alla sua caricatura. Ci vedemmo in quei giorni, ed era totalmente indifferente agli attacchi perché non lo toccavano, ma credo soprattutto perché quel che aveva detto come battuta, era in realtà profondamente vero. Era vero che i libri lo dominavano come «un vizio solitario». Ed era certo che anche Eco, come i suoi personaggi, diventava in Italia collettivamente “vero” perché la comunità dei lettori aveva fatto su di lui negli anni un investimento culturale e passionale, trasformandolo nell’Intellettuale italiano degli ultimi trent’anni.
Tutto questo lo ha portato all’ultimo atto, il riscatto di una parte del patrimonio di autori Bompiani – partendo da se stesso – dal gigante Mondazzoli per fondare con Elisabetta Sgarbi “La nave di Teseo”. Ne discutemmo a fine novembre, in un salone dell’Accademia dei Lincei. Umberto chiuse la porta e parlò sottovoce, perché confidava uno dei grandi segreti della sua vita, l’ultimo approdo della sua passione, o ancora una volta del suo “obbligo” culturale trasformato in avventura finale, a ottantaquattro anni.
Adesso la nave dovrà salpare da sola, senza il Capitano, ma con il suo nuovo libro Pape Satan Aleppe, di cui proprio negli ultimi giorni aveva preso in mano la copertina, toccandola e accarezzandola come fa chi ama i libri. Gli avevamo chiesto in tanti che destino voleva avesse la sua biblioteca un giorno, dopo di lui. Adesso che il giorno è venuto, bisogna ricordare cosa rispondeva: non era sicuro che la sua biblioteca gli assomigliasse, perché la passione per i libri ti porta a conservare anche ciò in cui non credi. Tuttavia, non avrebbe voluto che i suoi libri fossero dispersi.
Forse, diceva, verranno comprati dai cinesi: se vorranno, dai miei libri «potranno capire tutte le follie dell’Occidente».

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Stefano Bartezaghi per la Repubblica
Se Woody Allen e Paolo Villaggio sono stati autori Bompiani lo si deve anche all’Umberto Eco editor di titoli come Citarsi addosso o Come farsi una cultura mostruosa. Citazioni e cultura «mostruosa» sono proprio gli elementi che non solo per scherzo sembrano i migliori per definire l’immagine pubblica di Eco, studioso e romanziere di fama planetaria e di eclettismo già da decenni leggendario.
«Cultura come passione». Alla formula con cui ieri via Twitter lo ha ricordato Ezio Mauro andrebbe solo aggiunto, ce ne fosse il bisogno, che, mentre esistono passioni contemplative e statiche, quella di Eco era invece mobilissima, connettiva e, fino all’ultimo, instancabile nel cercare di impiantare sistemi per poi smontarli e ricominciare da capo. Dalla filosofia medioevale tornava ad Aristotele e poi rimbalzava su James Joyce, che lo portava sulla trincea delle neoavanguardie del secondo Novecento, con il Gruppo 63, l’intuizione dell’«opera aperta» e l’amicizia e la collaborazione con Luciano Berio, conosciuto però non in un conservatorio o un’accademia ma alla Rai di Corso Sempione, a Milano. La prima carambola sulle sponde del poliedrico biliardo della cultura fu questa e coinvolgeva filosofica antica, medioevale e contemporanea, avanguardia, accademia e mass media. Poi sarebbero arrivati i fumetti, lo strutturalismo e la semiotica; Gérard de Nerval e Sherlock Holmes; il cabalismo ebraico e cristiano e la fantascienza; le teorie della traduzione, i labirinti; il pensiero debole e quello ermetico; i complotti e il cognitivismo; le analisi di movimenti politici, terrorismo e berlusconismo; gli anagrammi e i romanzi; bellezza, bruttezza e terre incognite; la ghiotta bibliofilia ma anche l’impegno pionieristico sull’editoria multimediale, con la sua Encyclomedia e la fondazione del primo web-magazine italiano, Golem.
Quando ci si rende conto della quantità di discipline, argomenti, interessi, metodi e forme di espressione che Eco ha praticato in sessant’anni di attività ci si può davvero riferire a carambole fra elementi mobili che si toccano e si spostano l’un l’altro: si può perché ce lo ha insegnato lui. Non solo per le partite a flipper nel Pendolo di Foucault (fra i suoi romanzi, il più utile per comprenderlo), ma anche perché l’immagine della cultura che esce dal suo Trattato di Semiotica Generale è appunto composta di biglie che si avvicinano e allontanano, si toccano e si spostano, governate dal magnetismo caotico delle connessioni. Questa era, per lui, l’Enciclopedia: il ritratto entropico e probabilistico di una quantità di singoli elementi, o «unità culturali», in relazione l’uno con l’altro.
Ogni suo lavoro conteneva l’aspetto di interrogazione e quello di combinatoria. La ricerca culturale, l’investigazione («Io sono il Sam Spade della cultura», dice il protagonista del Pendolo) e l’enigma sono passioni anche ossessive sospinte dal motore e dal carburante di una domanda; la risposta deriva da una combinazione di elementi, indizi, segni, concetti che si concatenano in deduzioni e congetture, secondo un metodo di connessione che pagava i suoi debiti sia nei confronti della logica formale sia nei confronti dell’analogia più creativa. Così funzionano la memoria, l’enciclopedia, l’intelligenza.
In letteratura non è nata una «scuola di Eco» e anche in semiotica l’assieme degli studiosi che si sono formati nel suo insegnamento non è omogeneo per interessi e oggetti di analisi. Un’ortodossia echiana non è potuta esistere: fin nei suoi romanzi Eco ha sempre praticato e predicato la diffidenza verso i cultori fanatici di una qualsiasi Verità. Il suo vero insegnamento ha riguardato il metodo giusto per muoversi (non solo in teoria) in un mondo in cui convivono, apparentemente da estranei, dipartimenti e redazioni, metafisica e pop, astrazione e trivio. Ma guardare, prima che alle cose, alle relazioni che intrattengono è più facile a dirsi che a farsi. Dai sillogismi agli anagrammi, dalle «segnature» rinascimentali ai motti di spirito, la passione di Eco andava a tutti i modi possibili per combinare relazioni fra gli elementi raccolti dalla sua vastissima erudizione e dalla sua invece infinita curiosità.
Basta leggere i suoi testi, e guardare come sono fatti, per vedere che aveva previsto ipertesti e Internet ben prima che si fossero incarnati in format tecnologici, e sbandate planetarie. Collezionista di incunaboli e primo esploratore di computer e web, degustatore di biblioteche e teorico di enciclopedie, quando le sue intuizioni si sono appunto incarnate ha subito diagnosticato i mali che ne potevano derivare. Il primo è l’imbecillità – l’uso stolido, statico, ripetitivo di luoghi comuni oltretutto sbagliati o la connessione delirante —; il secondo, l’ipertrofia della memoria. Ricordare tutto sarebbe rovinoso quanto non ricordare nulla. Occorre invece essere mobili, e qui è il senso del suo gioco: immaginarsi sempre impegnati in nuovi «esercizi di stile» (lui che aveva portato in italiano quelli di Raymond Queneau), vedersi come non si è ancora mai stati, collegare quello che non è mai stato collegato e infine trarne una teoria, un romanzo, una barzelletta di cui sanamente compiacersi. Far ridere rettori e ridere di loro, impensierire buffoni, cospargere dogmatici di catrame e piume, riportare potenti alle loro responsabilità, cantare «Kant, filosofetto che mi piace tant», appassionare chiunque al Medioevo, fondare discipline, disseminare ovunque idee e dubbi. Nel continuo reinventarsi, con la sua cultura «mostruosa» e nei suoi giochi, Umberto Eco è stato quello che ha voluto e saputo essere: un uomo libero.

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Michele Serra per la Repubblica
GLI eruditi, in genere, sono mortalmente noiosi. Il loro sfoggio di cultura è puro culturismo. Esibizionismo. Se il mondo intero conosceva Eco è per l’apparizione, più unica che rara, di un erudito “divertente”, un supercolto ludico che si era premurato di rendere meno indigesto lo smisurato bolo enciclopedico con dosi massicce di ingredienti pop, le canzonette, la televisione, il fumetto, i giochi di parole e i giochi di memoria, la minutaglia vivace e spesso fatua della quale tutti ci nutriamo, appassionatamente, nella società di massa. Non ho mai capito bene che cosa sia davvero la semiologia, ma mi fa comodo pensare che sia soprattutto un metodo per occuparsi di Aristotele come di Mike Bongiorno senza cambiare faccia, attitudine, linguaggio (se esistono una faccia “alta” e una faccia “bassa”, Eco riusciva a non avere né l’una né l’altra, cioè ad avere sempre e solo la sua). Questa formidabile “normalità” di Eco di fronte alla cultura è di conforto e di incoraggiamento per chiunque ne abbia soggezione. Ed è ciò che ne ha fatto un intellettuale modernissimo e internazionale. Quanto alla sua intemerata finale nei confronti dei social network, molto ripresa dai giornali in occasione della sua morte, non vale come rimbrotto dell’accademico contro la cultura di massa, ma come grido di dolore di un cultore e custode della cultura di massa che la vede a rischio di collassare su se stessa.

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Danco Singer per la Repubblica

Era il settembre del 1990, lavoravo nell’area della Ricerca Olivetti come responsabile dei rapporti con le università e i centri di ricerca. Il laboratorio dell’Olivetti di Pisa aveva appena realizzato un prototipo di computer multimediale, un personal computer, che collegato con un lettore di videodischi (grandi come un long play 33 giri) poteva proiettare sullo schermo disegni, fotografie, filmati: non più solo testi e numeri.

Andai a trovare Umberto Eco nel suo ufficio di Scienze della comunicazione a Bologna e gli presentai il computer “multimediale”. Gli dissi: «Umberto, sono nati gli ipertesti e stanno investendo un mucchio di soldi per costruire computer sempre più potenti e multimediali, ma nessuno pensa a cosa metterci dentro come contenuto».
Lui mi guardò e mi disse: «Facciamo la storia del mondo».
Nacque così l’idea di fare un’opera enciclopedica unica nel suo genere in cui tutti gli strumenti conoscitivi e tutti i ”linguaggi” — testi, musiche, fotografie, disegni, filmati, citazioni — fossero intrecciati tra loro in un percorso infinito attraverso link che collegavano la storia, la musica, la filosofia, l’arte, la letteratura, la scienza.
Aveva già capito, prima di tutti, che sarebbe arrivato il World Wide Web. E come mi disse e scrisse molti anni dopo, rimettendo mano all’introduzione della sua Encyclomedia — Storia della Civiltà Europea —, «il primo servizio che un ipertesto come Encyclomedia rende ai propri utenti (studenti, insegnanti, studiosi, o anche semplicemente persone curiose che vogliano sapere qualcosa di più sul secolo in cui hanno visto agire, al cinema, i tre moschettieri) è quello di farli “navigare”, con pochi movimenti delle dita, nel tempo e nello spazio». Internet, come lo conosciamo oggi, non c’era ancora.
In queste poche righe di Umberto Eco c’è tutta la curiosità, la cultura, il gusto per il nuovo, l’ammirazione per la tecnologia, il desiderio di conoscere e parallelamente l’interesse a rivolgersi a tutti, studiosi o semplicemente curiosi, studenti e insegnanti. Sapere, capire, conoscere, raccontare, scoprire, inventare, stupire: qui c’è secondo me l’essenza di Umberto e della sua capacità di dire in modo semplice e chiaro, a tutti, cose difficili e complesse anche per pochi.
Forse uno dei momenti più significativi del percorso culturale, personale, professionale che ho avuto la fortuna di fare con Umberto è stato quando il 21 ottobre del 2013 abbiamo incontrato al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite il Segretario generale dell’Onu Ban-Ki-Moon e poi Eco ha tenuto la sua lectio magistralis a tutti i rappresentanti mondiali “Contro la perdita della memoria”.
In quei giorni a New York, mentre beveva il suo amato Martini seduti al caffè del nostro albergo, abbiamo costruito anche quel grande appuntamento culturale che è il Festival della comunicazione di Camogli. Grande per due motivi: perché si parlava di comunicazione, di linguaggi, filosofia, futuro, tecnologia e grande perché aveva chiamato intorno a sé i più grandi personaggi della cultura, dell’economia, della società italiana per ascoltarli e condividere con tutti loro la passione del sapere e del capire.
(Danco Singer, direttore editoriale di Em Publishers, ha ideato con Umberto Eco il progetto Encyclomedia e il Festival della comunicazione di Camogli)

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Paolo di Stefano per il Corriere della Sera
Ogni sera suo padre Giulio, ad Alessandria, gli raccontava la puntata di una storia senza fine, il cui protagonista era un fagiolino. E anche lui ai suoi figli, Stefano e Carlotta, raccontava una storia senza fine con tre orsi che giravano il mondo in pallone. Se gli si chiedeva da dove veniva in lui il desiderio di scrivere romanzi, Umberto Eco rispondeva che siccome i suoi figli sono diventati grandi, non avrebbe potuto fare altro che scrivere romanzi per esercitare la funzione fabulatrice che lo aveva accompagnato per tutta la vita. Se invece gli si chiedeva il perché della sua produzione scientifica, rispondeva che la scrittura è la prova del fuoco del pensiero e che finché un’idea che hai in testa non viene messa sulla pagina non puoi capire se ha un filo logico. 
Eccoli lì i due Umberti Echi, spiegati in modo apparentemente inequivocabile. Ma le cose sono più complesse, intanto perché gli Umberti Echi sono più di due. Poi per capire le ragioni che lo hanno spinto, nel 1978, verso i romanzi avrebbe dovuto chiedere allo psicanalista che non aveva mai avuto. Il filo rosso delle sue varie attività va rintracciato in una frase del suo maestro, il filosofo Luigi Pareyson: ciascuno di noi nasce con un’idea in testa e per tutta la vita non fa che girarvi intorno. Gli sembrò, sulle prime, un principio reazionario, poi però, in età matura, dovette convenire: «Anch’io — diceva Eco — non faccio che rincorrere da una vita, ossessivamente, una stessa idea centrale, salvo che non so dire quale sia». 
Sosteneva che il carattere scettico e disincantato della sua città, Alessandria, avesse inciso in modo determinante nel suo modo di scrivere e di pensare. C’era anche un senso del dovere che, come si capisce leggendo il suo romanzo più autobiografico ( Il pendolo di Foucault ), alimentò il suo impegno precoce nell’Azione cattolica, condotto (e sofferto) fino alle porte dell’età adulta. Precoce, in realtà, Eco lo fu anche nella scrittura creativa (tutt’altro che vocazione tardiva, come molti gli rimproveravano): infatti ricordava che, bravo in italiano e pessimo in matematica, sin dai 10 anni aveva cominciato a scrivere romanzi d’avventura, o meglio, i primi capitoli, illustrazioni comprese. Ma poi smetteva. 
La laurea, con una tesi a Torino sull’estetica di san Tommaso d’Aquino, la consegue a 22 anni, da vero secchione. Disse ironicamente che fu Tommaso a compiere il miracolo di guarirlo dalla fede. In Rai a Milano, dal 1954 al 1958 con Gianni Vattimo e Furio Colombo, disse di non aver fatto nulla di veramente interessante: in realtà fu l’occasione per avvicinarsi ai meccanismi televisivi e alla comunicazione di massa, che saranno tra i suoi cavalli di battaglia semiologica. È questo il passaggio che farà la differenza tra Eco e i suoi quasi coetanei accademici: l’avere conosciuto la tv dall’interno avrebbe poi contribuito alla nascita di saggi memorabili per intelligenza inventiva. Nel 1964 mandò Apocalittici e integrati a Montale con un auspicio: «Spero che La irriterà». La passione per Superman e per i Peanuts, la lettura infantile di Salgari si mescolavano con l’interpretazione di Manzoni, Joyce, Hemingway. 
È in corso Sempione che Eco incontra i compositori Bruno Maderna e Luciano Berio: attraverso la musica d’avanguardia si avvicina alla fonologia, alla linguistica, allo strutturalismo nascente (l’ Opera aperta è del 1962). È sempre lì che conosce anche la Milano della critica e della poesia: Luciano Erba, Bartolo Cattafi, Glauco Cambon, Luciano Anceschi, con il quale partecipa alla fondazione della rivista «Il Verri», primo nucleo del Gruppo 63. Alla Rai incrocia per la prima volta Angelo Guglielmi, che sarà uno dei teorici della neoavanguardia. Intanto, Eco non molla gli studi scientifici. D’altra parte, nel solco delle mitologie di Roland Barthes, non ha mai abbandonato gli strumenti d’indagine più acuminati anche nell’affrontare i fumetti, la canzone o la narrativa di consumo. Era un obiettivo per così dire politico: «decostruire» la comunicazione di massa significava fare controinformazione (ironica) all’invadenza dei persuasori occulti. 
Durante il servizio militare impugna il fucile una sola volta, per provare la mira, e dopo 18 mesi, nel 1959, è già alla Bompiani, dove sarà editor fino al 1975, in pratica imitando l’esperienza di tanti grandi intellettuali e scrittori da Pavese a Calvino a Sereni e altri. Allo zio Val, ovvero a Valentino Bompiani, Eco rimarrà fedelissimo come autore e come dirigente: con un gruppo formidabili di editor, da Nanni Filippini a Paolo De Benedetti, a Leo Paolazzi in arte Antonio Porta. «Esperienza decisiva e indimenticabile». Le lettere con l’editore meriterebbero un volume: l’abbandono della Bompiani, con la minacciata nascita della cosiddetta Mondazzoli, sarà certamente stata dolorosa, ma il varo della Nave di Teseo ha appagato il suo spirito pionieristico. 
L’incontro con la semiotica letteraria, con lo strutturalismo francese, con il magistero di Roman Jakobson, la coincidenza di interessi che nasce in Italia attorno alla scuola di Tartu, la divaricazione rispetto alla «semiotica filologica» di Segre e Corti (non era amatissimo dai filologi): tutto ciò mentre Eco si avvicina allo sperimentalismo di Sanguineti, di Manganelli e di Balestrini, contribuisce agli incontri del Gruppo 63 e soprattutto con i suoi saggi viene sempre più tradotto all’estero. Senza mai abbandonare la voglia di intervenire nei giornali sul «costume di casa» (la sua collaborazione al «Corriere» comincia con l’inserto letterario di Emanuelli nel ’63, poi Eco prosegue con la «Repubblica» e con l’«Espresso»). Nel ’75 è titolare di Semiotica generale all’Università di Bologna, da lì passa come ospite in vari atenei stranieri, francesi, americani, tedeschi. Tra i suoi meriti (alcuni dicono: tra i suoi demeriti) c’è la nascita del Dams. Tra i suoi meriti meno contestati c’è anche la fondazione del mensile «Alfabeta», che mette insieme, dal 1979 al 1988, generazioni diverse di critici, militanti della sinistra estrema e del Pci, poeti, filosofi, filologi, scrittori e critici diversi, da Porta a Volponi, da Maria Corti a Cases, da Leonetti a Rovatti a Calabrese. Sono i suoi amici. 
È in questa temperie che Eco matura il bestseller. Pare che una sera, finita una riunione di «Alfabeta», abbia confessato a Paolo Volponi di avere appena concluso un romanzo. Titolo: Delitti all’abbazia . L’amico gli fece cambiare idea: meglio Il nome della rosa . Eco, che in un primo momento avrebbe voluto farne un’edizione limitata per gli amici, si augurava che non si trasformasse ne Il nome della resa . Fu un successo planetario. L’astro di Moravia, in Bompiani, era in calo, ed Eco ne raccolse il testimone. In Francia, l’editore dei suoi saggi, François Wahl di Seuil, gli disse: «No, Umbertò, sbagli», e respinse il romanzo, facendo la fortuna di Grasset. Una «zuppa medievale», la definì Piergiorgio Bellocchio. Eco aveva anche i suoi avversari irriducibili. Era un postmoderno che amava divertirsi con la citazione e la narrazione metanarrativa. Era all’avanguardia anche tecnologicamente: fu uno dei primi a capire la rivoluzione digitale (e uno dei primi scrittori italiani a usare il computer), ma non amava internet. Tanto meno i social: «Danno la parola a milioni di imbecilli. E la socievolezza è un’altra cosa».

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Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera
Eco significa Ex coelis oblatus , donato dal cielo; «per fortuna l’impiegato dell’anagrafe che registrò la nascita di mio nonno era di animo gentile e amava il latino. Altrimenti mi sarei chiamato Ficarotta» raccontava sorridendo. Il padre non era un barone universitario: aveva un negozio di ferramenta ad Alessandria. Lui ebbe un grande maestro in Luigi Pareyson, che però come erede gli preferì un altro ragazzo prodigio, Gianni Vattimo. Umberto Eco era il figlio dell’Italia affluente del dopoguerra, un’Italia di provincia dove l’eccellenza non era data dalla nascita e dalle relazioni personali ma dal talento e dal lavoro: tra gli altri «ragazzi di via Po», Vattimo era figlio di un poliziotto calabrese e di una sarta, Furio Colombo di un impiegato dell’editore Lattes; qualche anno dopo si aggiunse al gruppo un formidabile studente di Trieste, Claudio Magris. 
La guerra per il giovane Eco passò in campagna, dove si raccontavano storielle in dialetto piemontese per vincere la paura dei bombardamenti e si ascoltava di nascosto Radio Londra (il Sandokan della sua adolescenza fu Franchi-Edgardo Sogno, il destinatario dei messaggi in codice degli inglesi). Nei primi anni del dopoguerra va a Torino solo per i concerti; una sera, mentre suonando l’ocarina aspetta il treno per Alessandria, si avvicina un vecchio che lo invita a salire in casa; lui fugge via spaventato. A Palazzo Campana, dov’era l’università di Torino, incrocia Norberto Bobbio, Nicola Abbagnano, Augusto Del Noce, Augusto Guzzo, il filosofo — di cui ha lasciato una caricatura nell’ultimo libro, Numero zero , pubblicato il giorno del suo ottantatreesimo compleanno — che costringeva gli assistenti a registrare le sue lezioni con il magnetofono e a trascriverle in bella copia. Vince il concorso per il collegio universitario: i «nonni» lo obbligano a disegnare papiri osceni per usi goliardici, lui accetta ma a una condizione: «Solo culi, niente falli; sapete, sono cattolico». Quando tocca a lui rifarsi sulle matricole, le costringe a lustrarsi il sedere con il lucido da scarpe fischiettando la Sinfonia classica di Prokofiev. 
Fin dall’inizio Eco è affascinato dal pensiero medievale e dai nuovi linguaggi. Tra Torino e Milano in quegli anni nasce la televisione; e Umberto, con Colombo e Vattimo, è tra i «corsari» che entrano nella neonata Rai per concorso (anche se non è vero che abbia scritto le domande per Lascia e Raddoppia di Mike Bongiorno, di cui ha firmato la Fenomenologia). Insieme i «ragazzi di via Po» entrano anche nell’Azione Cattolica, tentando — invano — di deviarne il corso verso il centrosinistra. 
Eco si innamora, corrisposto, della prima star della televisione italiana: Enza Sampò. Lei è avvinta dalla sua intelligenza e dalla sua cultura, anche troppo: una volta lui la rimprovera perché ha storpiato il nome di un pittore, Mignaco per Migneco; Enza si sente inadeguata, e lascia Umberto per un ragazzo siciliano di bell’aspetto che non crea troppi problemi: Emilio Fede (lascerà anche lui quando troverà sulla sua macchina sportiva gli occhiali da sole di un’altra donna). 
La Milano di Eco è quella di Brera, del Giamaica, del Blu Bar: filosofi come Enzo Paci e Carlo Augusto Viano, artisti come Enrico Baj ed Emilio Tadini, musicisti come Luciano Berio, editori come Valentino Bompiani, che assume Umberto perché lo trova «curioso come una scimmia». Sul suo terrazzo di via Canonica, Eco invita i colleghi della Rai e dell’università ma anche cantanti, attrici, ballerine come la cubana Marshall, con cui ha una storia d’amore; una sera arriva Juliette Greco, che viene scarrozzata per Milano sulla Topolino di Furio Colombo. A volte Eco organizza feste a tema, in cui esercita la sua passione per il divertissement intellettuale: la sera del martedì grasso del Carnevale 1956 ci si traveste da composizioni musicali; lui si presenta in veste da camera, con un romanzo giallo in tasca, uno stuzzicadenti in bocca, un asciugacapelli legato alla testa e un cartello con il titolo: L’apres-midi d’un phon . 
Comincia allora una lunga ricerca, nasce anche in Italia una nuova scienza che studia i segni nella letteratura; sino al successo mondiale del Nome della Rosa, pubblicato il giorno del suo quarantottesimo compleanno. Alla base c’è un’idea coltivata fin dalla giovinezza, in sintonia con il «pensiero debole» di Vattimo: l’uomo è misura di tutte le cose, la verità assoluta non esiste, i grandi sistemi filosofici, religiosi, ideologici sono destinati a crollare o a sfaccettarsi sotto l’incalzare della modernità; e «nell’infinita vertigine dei possibili, Dio vi consente anche di immaginare un mondo in cui il presunto interprete della verità altro non sia che un merlo goffo, che ripete parole apprese tanto tempo fa» come dice Guglielmo da Baskerville — nome scelto pensando a Conan Doyle — nel memorabile dialogo finale con Jorge da Burgos, nome scelto pensando a Borges. E di tutto si può ridere: il riso è proprio dell’uomo, perché l’uomo è l’unico animale che sa che deve morire. Della morte Umberto Eco ha riso sino all’ultimo, bevendo whisky, mangiando noccioline e raccontando storielle in dialetto piemontese.

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Gianni Riotta per la Stampa

Alla prima della Scala, salendo un gradino dopo l’altro, a Umberto Eco venne il fiatone e serissimo scandì «Eh, non abbiamo più settant’anni!». Uno spirito fanciullesco, timido, dietro l’aplomb dell’intellettuale famoso. Il nome della rosacelebra proprio il mistero del secondo libro perduto della Poetica di Aristotele, dedicato alla commedia, che il monaco Jorge da Burgos avvelena pur di tenere il mondo nella cupezza e nell’astio livido. La tolleranza, per Eco, era imparare a sorridere.
Umberto Eco era un intellettuale rigoroso, nel suo Come si fa una tesi di laurea del 1977 insegnava ai malmostosi studenti dell’anno di rivolta come si studia, li incitava a essere perfetti anche nelle note a piè di pagina. La sua allegria scanzonata era detestata dalla tradizione conservatrice, avversario più severo Pietro Citati, ma Eco, nell’ultima stagione di vita, si vide affrontare dal populismo unito, la destra non gli perdonò le critiche a Berlusconi, il sottobosco di sinistra le critiche al qualunquismo via web.
Non se ne curava, «ho lavorato a far nascere la cultura online», mi spiegava, «con te e Danco Singer abbiamo fondatoGolem, prima rivista online già nel 1996! Ma, insisto, sul web vale il rigore culturale, come in biblioteca». Passò quindi a spiegarmi perché non usare il termine «incunaboli» in un certo racconto, dettava il corsivo al Manifesto al volo, battezzando il segretario del Msi «Giorgio Fucile Almirante» ma, con lo pseudonimo Dedalus, polemizzando anche con Pasolini su aborto e omosessuali. Condivideva con Furio Colombo - il suo amico migliore - il segno zodiacale del Capricorno, ma avevano opposti caratteri. Ho visto i due Capricorni preparare le valigie insieme, ordinatissima quella di Furio, un caos informale quella di Umberto. Ma entrambi insegnavano a lavorare 24 ore al giorno, usando l’esperienza per capire il mondo. Nel 1984 ho seguito Eco in America per il lancio del Nome della rosa, in aereo scriveva freneticamente, erano già gli appunti per Il pendolo di Foucault. Andava alla Columbia University a parlottare con il decano degli architetti Mario Salvadori, grande amico del musicista d’avanguardia Luciano Berio. Mario spiegò a Eco un teorema sul pi greco e il pendolo doppio, da quella scintilla partì il romanzo, «Il nome della rosa invece ho preso a scriverlo perché avevo voglia di uccidere un monaco…».
Eco, Salvadori, Berio, maestri del ’900. Eppure, una Pasqua, per rallegrare mio figlio bambino, Renate, la moglie di Eco studiosa di teatro dei burattini, mise su uno spettacolo con le marionette, Eco a suonare il flauto dolce, suo strumento prediletto, Berio a comporre una sinfonia sul pianoforte giocattolo, Furio e Alice Colombo a interpretare i personaggi della fiaba.
La fama non spense mai questa allegria disincantata. Mi raccontò di avere incontrato un giovane Berlusconi in cerca di consigli per le tv dal grande studioso di mass media, «poi fece il contrario di quel che dicevo e diventò ricco…», ma quando gli chiesi conferma dell’aneddoto a Rai Storia, ghignò: «Leggenda metropolitana». Si rese conto presto che il web è un nido per i complotti, spiegando al Corriere(http://goo.gl/7V0Yhg) che il nichilismo mina il XXI secolo. Ai tempi del primo governo Prodi, 1996, Walter Veltroni sperava che la presidenza della Rai andasse a lui, ma rifiutò con le stesse parole usate per dire di no alla candidatura a sindaco di Milano 1993: «Sono un barone, abituato a sentirmi dire di sì, in politica bisogna accettare troppi no».
Quando Bill Weaver tradusse Il nome della rosa gli disse schietto: «È meglio scritto in inglese che in italiano», e Bill rideva: «Grazie ai diritti ho ricostruito casa!». Appena sbarcava a New York, la sua amica Barbara Jakobson del Moma dava un party. C’erano i designer Massimo e Lella Vignelli, Carlo Di Palma, direttore della fotografia di Antonioni e Woody Allen, i Colombo, a volte il vecchio Stille. Umberto beveva Martini cocktail, «testimonianza di civiltà», accendeva una sigaretta e rauco teneva lezione: «I complotti funzionano così. Sei chiuso in un ingorgo sull’autostrada, tutti imprecano, colpa del ministro, colpa delle riparazioni, colpa dei Tir, ma la “colpa” è di nessuno, solo migliaia di auto in coda. I terroristi sfruttano l’ingorgo mediatico, ma il primo libro sui complotti è l’Iliade, rissa degli dèi, colpa loro mica di achei e troiani! Poi colpa dei cristiani che bruciano Roma, dei cavalieri templari, dei massoni. Ricordi il terrorismo italiano? Si parlava di “Grande Vecchio” perché trentenni inesperti non potevano progettare il rapimento di Moro. Quando li han presi ci siamo accorti che erano trentenni, il Piccolo Giovane aveva messo in crisi la Repubblica. Perché la teoria del complotto nasconde la realtà, non la illumina».

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Matteo Collura per Il Messaggero

“Il professore”: così lo chiamavano tutti. Eco era “il professore” per eccellenza: per la portinaia, il barista, l’edicolante, i giornalisti che lo intervistavano, per chi, incontrandolo per strada, lo riconosceva. Lo era, naturalmente, anche per gli accademici, ma con quel po’ di disappunto che si ha nei confronti del collega che scherza un po’ troppo con il proprio magistero.
Proviamo a dirlo diversamente: Eco era un professore rimasto dall’altra parte della cattedra, più studente che insegnante, perché il suo carattere lo portava a trattare qualsivoglia argomento dello scibile come un qualsiasi tema di studio, ma soprattutto di conversazione. Per questo, in Italia, fu il primo a collegare la filosofia con il fumetto, a non sottovalutare la letteratura di massa, la televisione, l’enigmistica, tutto ciò che i paludati intellettuali e i professoroni consideravano e considerano scarti dell’intelletto, inutili sprechi di tempo.
GLI INCONTRI
Si è detto di lui che non aveva la “libido docendi”, infatti le sue lezioni universitarie non avvenivano mai ex cathedra. Gli piaceva insegnare perché gli piaceva parlare, con condimento di battute, iperboli, divagazioni. Di questo posso fornire testimonianza, perché con “il professore”, in questi ultimi anni, ci si vedeva al bar un paio di volte la settimana, per parlare di libri e letteratura, vale a dire della vita.
Gli incontri avvenivano a Milano, in un caffè di via Dante, non lontano dalla casa di Eco, affacciata sul Castello Sforzesco. Vi facevano parte gli affiliati a un’associazione di bibliofili, l’Aldus Club, così chiamato in memoria del grande tipografo Aldo Manuzio. Lui ne era il presidente (onorario, negli ultimi giorni, considerato il suo stato di salute).
In quei pomeriggi, un bicchiere di Martini dry a portata di mano, Eco si divertiva a esercitare il suo indiscusso ruolo di professore, ma nel modo a lui più congeniale. Vale a dire con ironia, allegro pettegolezzo, leggero disimpegno. E qui sta il suo insegnamento forse più importante: il momentaneo disimpegno fa grandi gli uomini che vivono d’impegno intellettuale.
GOLIARDIA
Si è sempre detto che Eco è rimasto un goliarda. E lui in pubblico, e forse anche in segreto, se ne compiaceva. Gli piaceva giocare nell’eterno ruolo di junior, la battuta pronta, la barzelletta fresca d’invenzione. Era un instancabile cultore di barzellette, ma questo non abbassava minimamente la sua autorevolezza di grande intellettuale, il più importante nell’Italia degli ultimi decenni. Al bar, nei pomeriggi di cui ho detto, tirava fuori le barzellette “dedicate”, vale a dire adattate a ognuno dei suoi interlocutori. A me, siciliano, ne destinava una con protagonisti siciliani; a un piemontese un’altra, con tipiche situazioni piemontesi.
LE ORIGINI
Si vantava di essere un piemontese di Alessandria, nato cioè in una terra tutta concretezza e resistente alla facile mitologia. «Povera di leggende, Alessandria si è affrettata a dimenticare anche la Storia, che le è passata sempre di fianco, senza che i cittadini si sporgessero per toccarle la falda del mantello», scriveva cinquantuno anni fa. E aggiungeva: «Alessandria non ha mai sentito il bisogno di imporre un Verbo sulla punta delle armi; non ci ha dato modelli linguistici da offrire agli speaker radiofonici, non ha creato miracoli d’arte per cui far sottoscrizioni, non ha mai avuto nulla da insegnare alle genti, nulla per cui debbano andar fieri i suoi figli, dei quali essa non si è mai preoccupata di andar fieri».
DISTACCO
Volete ci si possa lasciare impressionare con simili natali? Ecco da dove veniva anche l’ostentato distacco di Eco da tutto, quel suo giocare a non prendere mai nulla su serio.
Ma l’autore di un capolavoro letterario come Il nome della rosa non può non avere, oltre all’immenso sapere, anche grande cuore, calda umanità. Quando un paio d’anni fa, Mario Scognamiglio, segretario e rimpianto animatore dell’Aldus Club, sentì di approssimarsi alla morte, volle riunire i suoi amici bibliofili (Eco tra questi) per dare loro, socraticamente, un ultimo saluto. Avvenne in una sala appartata di un caffè milanese. Ero stato invitato anch’io. Scognamiglio volle concludere l’incontro con una richiesta a Umberto Eco che lì per lì mi sembrò impertinente: la lettura ad alta voce del Cantico delle Creature di Francesco d’Assisi. Scognamiglio gli allungò un foglietto, Eco lo prese e lesse. E fu una meravigliosa musica di parole, impeccabilmente pronunciate dallo scrittore, grazie alla sua conoscenza del mondo medievale.
Un ultimo ricordo. Quando nel 2004 una delegazione dell’Aldus Club si recò ad Alessandria d’Egitto per donare dei volumi (alcuni preziosi) alla riedificata Biblioteca di quella città, Umberto Eco faceva parte del gruppo. Si andò in pullman da Il Cairo ad Alessandria. Lungo la strada, gli immancabili cori, come quando si è in gita tra studenti o tra impiegati in viaggio premio. Era Eco, ricordo, a dare il via ai canti, con contagioso entusiasmo.
Per la cronaca, “il professore” donò alla Biblioteca di Alessandria un raro incunabolo.

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Furio Colombo per il Fatto Quotidiano

La cosa più disorientante è che non riesco a liberarmi da questa impressione: sto andando a Milano per parlare con Eco della morte di Eco, e rivedere insieme quella marea di cose fatte che richiedono una grande mente per essere narrate con ordine e restituire a ciascuna il senso che ha avuto. E quando ti rendi conto che non funziona così, comincia a insediarsi il lutto, che a colpi, a scatti, a sorprese (un po’ i ricordi, un po’ i fatti) si rivela un’esperienza assurda. Non c’è rifugio, ma fai barricata coi ricordi. I giorni di Eco sono talmente tanti che non corrispondono a un calendario e non sono la somma del tempo vissuto.
Sono strisce di cose pensose, festose, inattese, tra cultura e invenzione, tra erudizione profonda e battuta azzeccata, tra diario e anticipazione (potrei anche dire “profezia”, ma temo il suo piemontese rancore verso la retorica e la celebrazione) che non puoi fare un tuo personale bilancio, per quanto ti proclami “amico di una vita”.
È vero, sarebbe un modo di fronteggiare il peso eccessivo di ciò che è appena accaduto (Umberto Eco è morto) e che è un controsenso, con quel tipo di vita che, come certi film, non si presta al riassunto. Potresti dire che lo conosci da tanto. Ma quel tanto poi lo devi moltiplicare per tanti modi di essere, agire, capire, lavorare, pubblicare, esistere; e lasciare impronte in parti del sapere e in parti del mondo; e dentro culture diverse, che allargano enormemente lo spazio, finchè persino tu, che credi di esserci sempre stato, sei un punto fra altri che hanno partecipato o testimoniato di una vita che ha stupito molto, ha creato ammirazione e sorpresa mentre scorreva e dava l’impressione di durare sempre. Mi ricordo due scene sul treno della Cina, destinazione Pechino, sulla via della seta, tanti anni fa (come dirò ai suoi nipoti). In una siamo seduti per terra in un treno affollato, circondati di bambini perché stavamo cantando canzoni alpine italiane. I bambini cinesi, abbastanza intonati, si accodavano, al punto che Eco (che sa di musica e suona parecchi strumenti) ha cominciato a insegnare, far ripetere, dirigere, e dopo un po’ tutto il vagone seguiva. In un’altra scena, alcuni di noi erano il pubblico di una disputa linguistica fra Eco e i giovani professori cinesi che ci guidavano. E il tema della discussione – in inglese – era quella specie di altarino che nell’ideogramma cinese si disegna sotto le parole riferite al potere: sono un gradino? Un altare? Un atto dovuto?
La Nave di Teseo è stata l’ultima avventura vissuta insieme. Come ai tempi della Rai (ricordate? Il concorso), come ai tempi del Gruppo 63 a Palermo, come ai tempi del Dams a Bologna, come ai tempi del viaggio in Cina, come ai tempi della Academie des Culturers presieduta da Elie Wiesel, dove si discuteva e lavorava ogni anno, a Parigi, con Jacques LeGoff, Toni Morrison, Wole Soynka, Luaciano Berio.
Umberto e io avevamo l’impegno di preparare per l’Academie un programma scolastico online di educazione alla pace per le scuole elementari. Come ai tempi dell’Istituto di Cultura di New York, che allora io dirigevo, dove dialogavano con lui, di volta in volta, (“le conversazioni in pubblico”) Susan Sontag o Vanessa Redgrave. Come alla Columbia University, dove un 25 aprile è stato celebrato da Umberto insieme a Giorgio Strehler, davanti a una folla di professori e studenti. Ma La nave di Teseo è stata forse l’evento più sorprendente e più giovane per uno scrittore che aveva già inondato il mondo con milioni di copie in tutte le lingue, ma non ha permesso di cambiare l’editore storico italiano per ragioni commerciali che non lo riguardavano. “Io non sono in vendita”, ha detto al suo editore Bompiani (parte del gruppo in vendita RCS). E tutta la Bompiani, a cominciare dal suo capo, Elisabetta Sgarbi, e molti autori anche grandi e consapevoli del rischio, lo hanno seguito senza pensarci.
Al nipote teenager Emanuele –che spesso è stato compagno di conversazione del celebre nonno (nonno assoluto, fino al punto da andarlo a prendere a scuola quando il primo dei suoi nipoti era bambino) – che gli aveva chiesto: “Perché lo fate?” aveva risposto, da piemontese un po’ risorgimentale e privo di retorica: “Perché si deve”.
E adesso abbiamo la ragione per continuare, impedendoci però di dire che lo facciamo “in suo nome”, per evitare i fulmini del suo disappunto piemontese per le celebrazioni.
I flash di memoria – che giungono, com’è inevitabile, in disordine e non obbediscono alla sequenza del prima e del dopo – sono utili con Eco, a causa di un tratto unico della sua vita. Non è di quelli che maturano (come in tante biografie americane) e fanno mille mestieri e un po’ di frequentazioni sbagliate prima di diventare il genio. Umberto è saltato in scena allegro come si è allegri a vent’anni, niente affatto spaesato in un villaggio come la Rai, che non sapeva di essere già globale ma lo era, e si è accorto subito di abitanti molto strani e molto diversi, come Mike Bongiorno e Luciano Berio.
Negli stessi anni. che si potrebbe chiamare avanguardia dell’avanguardia, Eco ha scritto La fenomenologia di Mike Bongiorno e ha lavorato con Luciano Berio a quell’Omaggio a Joyce che è diventato il primo testo musicale della grande e bella produzione musicale di Berio, su lavoro letterario di Eco (quasi nessuno conosceva Joyce) e con la partecipazione, di cui mi vanto ancora, della mia voce.
Intanto John Cage, padre dell’avanguardia di tutti i luoghi, i generi e i tempi, veniva a mangiare con noi a casa di Berio (la moglie era allora Cathy Barberian, dalla voce indimenticabile) in attesa di presentarsi a Lascia o Raddoppia? come concorrente (alla fine vincente) nello show di Mike Bongiorno.
L’enciclopedismoche Umberto prescrive ai più giovani come fondamento del nuovo c’era già in pieno, nell’Eco giovane che non ha mai smesso di scrivere, di ridere, di insegnare e di trasformare la cultura alta in romanzo. C’era già l’idea della scuola che tutti vanno cercando, ripetendo a volte la sciocchezza dello studio simile il più possibile al lavoro, invece che formidabile esercizio di intelligenza. Ma è urgente, e questo è il punto duro e insopportabile del lutto, parlarne con lui.