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 2016  febbraio 22 Lunedì calendario

Clientelismo, corruzione e pochi fondi: il declino degli atenei

C’è molta soddisfazione e senso di responsabilità, motivati anche dai risultati eccellenti della ricerca italiana”. Così parlò la ministra dell’Istruzione Stefania Giannini! Ma queste frasette di circostanza sono un po’ poco come risposta al manrovescio che qualche giorno fa Roberta D’Alessandro ha appioppato all’università italiana e a chi la governa. Dall’Olanda, D’Alessandro ha vinto un succulento finanziamento di ricerca europeo.
La ministra ha colto la palla al balzo sottolineando che ben 30 italiani hanno ottenuto quel finanziamento. Sublime imprudenza, che deborda in gaffe! Aveva trascurato che, di quei trenta, diciassette avevano ottenuto il finanziamento da un Paese straniero, dove avevano avuto la fortuna che gli era stata negata in patria. Gli italiani il talento ce l’hanno, ma funziona meglio se lo si porta altrove. D’Alessandro ha elencato uno per uno i concorsi a cui ha partecipato in Italia senza vincerli, scavalcata sfrontatamente da persone con curricula meno ricchi. È venuto così a galla un dato raggelante, già noto (ne parlai venticinque anni fa in un libro che fece chiasso, L’università dei tre tradimenti…): l’università italiana è clientelare e corrotta fin nelle fibre più profonde, esser bravi non è sufficiente, anzi può far danno.
Ma il clientelismo non è la sola malattia. A Messina, un docente diventa ordinario con libri clamorosamente copiati. Il Politecnico di Torino respinge un matematico di livello internazionale. I professori sono in rivolta contro i metodi di valutazione ministeriali… La nostra università va inesorabilmente a fondo, nel silenzio compunto di ministri, ministre, capi di governo, capi dello Stato.
Da alcuni anni le immatricolazioni sono in caduta. I nuovi iscritti del 2003 erano 338.036; quelli del 2013 sono 270.145. Sessantacinquemila persone. Quest’anno in alcuni atenei s’è registrata una tenue ripresa, ma gli incrementi non sono mai superiori al tre per cento rispetto all’anno precedente. I diplomati delle superiori, in altri termini, passano sempre meno all’università. Perché dovrebbero? Solo la metà trova lavoro a tre anni dal diploma, il dato peggiore nell’Unione europea, lontano dalla media Ue, che nel 2014 era dell’80,5%. Ma ci sono altri motivi a decine. Per esempio, l’offerta di corsi di studio cervellotici, la vergognosa mancanza di sostegno finanziario agli studenti. In Italia appena il 20 per cento dei giovani riceve un aiuto pubblico; in Finlandia è l’80 per cento e in altri paesi la totalità. L’obiettivo Ue per il 2020 prevedeva che i laureati europei dovessero essere il 40 per cento delle coorti di età interessate. Ma nel 2013 l’Italia era all’ultimo posto tra i 28 dell’Unione, con uno sciagurato 22 per cento. In Germania i laureati erano il 33 per cento di giovani laureati; in Francia addirittura il 44!
Le cose non vanno meglio dal lato dei docenti. Sono passati in dieci anni da 63.000 a meno di 52.000, decimati e demotivati da una normativa delirante, dalla gragnuola di riforme inutili, dall’interminabile blocco dei concorsi, dalle estenuanti attese, dalle retribuzioni miserabili, dal dilagare del precariato, dal degrado qualitativo. Intanto il fondo di funzionamento del sistema diminuiva del 22 per cento.
Le università sono sempre più povere, meno frequentate e con pochi professori-ricercatori. A nulla è servita la scombiccherata invenzione (èra Moratti) delle università telematiche (scimmiottatura delle grandi università a distanza inglesi o spagnole) e il fiorire di atenei privati oscillanti tra la comica e il codice penale.
Sembra che in questo Paese non interessi a nessuno investire in conoscenza. All’università è destinato il 7,4 per cento della spesa pubblica, contro una media Ocsedell’11,6. Ma l’obiettivo a lungo termine non sarà quello di chiudere baracca e burattini? Il dubbio è sensato. La diffusione dei corsi universitari telematici (tipo Moocs) potrebbe essere un preannuncio. Quanto alla ricerca, la si fa meglio all’Iit (nato dal ginocchio di Tremonti, favorito di vari ministri e ora protégé del capo del governo), nelle diverse agenzie e istituti nazionali di questa o quella specialità. Nelle università intanto si fa il caffè con la cicoria e il sapone con la cotica: interi corsi di studio tirano avanti a fatica sfruttando una invenzione di Antonio Ruberti, che era geniale ma presto fu distorta in regalia clientelare: il professore a contratto. Ognuno di costoro costa appena duemila euro all’anno per fare quel che fa un professore, ma c’è la ressa per entrare, e nessuno si preoccupa se s’ingrossa la massa minacciosa dei precari. Poco importa se molti contratti finiscono a notabili locali, signorinelle di passaggio, avvocati e dentisti, politici in disarmo, mezzibusti e giornalisti di ogni rango…
Come volete che un apparato di questo tipo possa dare un reale contributo al Paese? Che i giovani desiderino frequentarlo, e magari tentare di entrarci per lavorare? Come volete che i giovani e le giovani migliori, ricchi di idee, di speranze e di ambizioni vogliano tornare in Italia? Basteranno le sbandierate “eccellenze” (Bocconi, politecnici e poco altro) a salvare l’intelligenza di questo Paese?
P.S. A proposito, che ne è stato delle 500 cattedre “eccezionali” per i ricercatori espatriati promesse qualche mese fa dal capo del governo?