Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 22 Lunedì calendario

Maldini, Del Piero, Totti e le altre bandiere così difficili da ammainare

Non esistono più i giocatori bandiera. E meno male, diranno i presidenti. Perché quelle bandiere sono stoffa pesante, sono teli che ingombrano, aste che si spezzano. Simboli di storia e agguati di memoria. Indicano la strada e la fanno perdere. Sono organi che crescono a dismisura all’interno del corpo, e poi un brutto giorno scoppiano. Perché dentro quel guscio che chiamiamo Totti, dentro quell’involucro a forma di Totti è evidente che Totti non ci sia più. Da anni. È la legge del tempo. Eppure non c’è mai stato così tanto, è un super Totti senza più Totti. Arriva sempre, il momento in cui la bandiera copre tutto il resto. E bisogna saperlo gestire: difficilissimo. L’addio forzato o forzoso può finire bene (quasi mai), male (spessissimo) oppure così così. Il caso più vicino a Totti, cioè Del Piero, cominciò come una tagliola, però la Juventus e il suo capitano ebbero l’accortezza di odiarsi sorridendo, preparando bene le clausole del divorzio, specialmente quelle scritte in piccolissimo. Dopo essere stato costretto a concedere a Del Piero il famoso contratto in bianco, Andrea Agnelli annunciò che non ci sarebbero state proroghe, lo disse prima agli azionisti e fu un gentile addio indiretto. Ma Del Piero si prese ancora una stagione di gloria, con qualche gol pesante e quell’ultima partita/ passerella difficile da dimenticare. Anche lui in realtà non è stato capace di smettere al momento giusto, ma almeno non sono volati gli stracci e la storia con la Juve è rimasta intatta, nella sostanza e nelle apparenze perché anche di quelle si vive. Molto diverso l’addio di Paolo Maldini al Milan. Lui, la gara dei saluti e delle lacrime non l’ha proprio avuta, anzi alla fine l’hanno trattato peggio di uno qualunque, ai limiti dell’offesa. Ennesima dimostrazione che la bandiera imbarazza soprattutto chi la possiede e deve decidere, dopo, in quale ripostiglio metterla. Perché la bandiera è un marchio, cresce per moltiplicazione cellulare, crea province autonome dentro l’impero: un’azienda parallela che l’azienda madre può patire. Ci sono implicazioni commerciali e contrattuali che richiedono architetture complesse, e in definitiva friabili. A volte il campione fattura quasi come chi lo stipendia, è lui che decide quante magliette col suo numero e il suo nome saranno vendute, la sua presenza e ancora di più la sua assenza orientano il mercato, compreso quello dei sentimenti: quasi una simbologia del guscio, dell’involucro. E quando il guscio si svuota di contenuti tecnici, quando si appesantisce troppo (chili, ma anche potere), ecco che i proprietari della bandiera ne diventano ostaggio. E si ribellano, facendo fare il lavoro sporco agli altri, non di rado agli allenatori. Quelle 28 panchine stagionali di Del Piero, ancora lui, raccontavano qualcosa che forse andava oltre le scelte tecniche. C’era chi soffiava nelle orecchie di qualcuno, anche fuori dal club. A volte la bandiera chiude in gloria, come Zanetti all’Inter. Invece di essere corroso dal tempo, il quarantenne con i capelli più scuri della storia dello sport riuscì a farsi beatificare in vita e adesso eccolo lì, nella stanza del comando dove sull’altra riva, quella milanista, non riuscirono ad entrare non solo Maldini, ma neppure Baresi e Rivera. E più o meno la stessa cosa è accaduta tra Antognoni e la Fiorentina. Perché c’è quasi sempre vento contrario ad agitare le bandiere. Brutta fine tra Casillas e il Real Madrid, triste e forse troppo prolungata quella tra Di Natale e l’Udinese. Solo gli inglesi ci insegnano a dire addio con leggerezza, forse con maggiore rispetto prima di tutto per se stessi: dopo mille partite col Manchester United, il leggendario Giggs è passato nello staff tecnico mentre Scholes, altro rosso epico, venne addirittura richiamato. A Totti non accadrà, sebbene nessuno abbia incarnato la storia di una squadra più di lui, forse in nessun angolo del pianeta: e questo complica maledettamente le cose, ora che per gestire l’addio servirebbero garbo e stile. L’esatto contrario di quello che sta succedendo dentro la Roma e dentro Totti. Del resto, noi italiani ci facciamo quasi sempre fregare dall’emotività, ci cascò persino Roberto Baggio a Bologna, quando Ulivieri lo mise in panchina contro la Juve e lui rifiutò di andarci: arriva il momento in cui qualcuno dice alla bandiera “tu sei come gli altri” e fa finta di crederci. Il problema della bandiera, a quel punto, è scoprirsi diversa non dagli altri ma dal ricordo di sè. Non è solo l’umana debolezza che ci tiene avvinghiati alle cose del mondo, un mestiere, un amore, a volte persino un oggetto, ma l’impossibilità di riconoscersi. Perché la bandiera si accorge prima di tutti quando cade il vento, però dà la colpa al vento e non al tempo.