Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 22 Lunedì calendario

Troppo garbato, Jeb Bush è stato bocciato da quelli che amano i politici alla Trump ma anche da quelli che li destestano

L’America seppellisce la dinastia politica più importante della sua storia e volta pagina. Ci si poteva immaginare la fine dell’era Bush come uno spettacolo tragico e maestoso, un trionfo di arroganza politica, di potere spregiudicato e incancrenito, punito dagli elettori. Invece Jeb, il personaggio che gli analisti hanno sempre considerato l’intelligenza politica più fine della famiglia, un uomo con un forte senso etico, esce di scena in punta di piedi e con gli occhi umidi, dopo la sconfitta alle primarie del South Carolina. Travolto dalla sua gentilezza, prima ancora che dalla sua biografia. In un anno elettorale nel quale gli americani, per ora, premiano un Donald Trump sempre più simile allo spietato Robert Duvall nel Vietnam di Apocalypse Now («Mi piace il profumo del kerosene la mattina: odore di napalm, odore di vittoria») Jeb è stato respinto da due Americhe: quella che vede in lui il figlio e fratello di presidenti che non hanno lasciato un buon ricordo e quella che lo percepisce come una specie di cartone animato, un Heidi della politica. Il più giovane dei Bush, incapace di recuperare consensi con i suoi modi da parroco di campagna in un anno i cui gli elettori della destra Usa vogliono gladiatori, è riuscito a fondere queste due Americhe commettendo un errore magistrale: ha chiamato ad aiutarlo, in New Hampshire, la novantenne madre Barbara. Il personaggio del clan Bush più amato dalla gente, ma anche una donna abituata a parlare in modo molto diretto e senza fare tanti calcoli politici, Barbara ha involontariamente dato il colpo di grazia al figlio definendolo «troppo garbato». Per Jeb è stato l’inizio della fine: un’altra sconfitta bruciante in New Hampshire, la fuga dei finanziatori della sua campagna, ormai alla ricerca di un altro repubblicano più tosto, capace di fermare gli estremisti Trump e Cruz. E poi i suoi stessi supporter che, anziché sostenerlo, rispondevano spazientiti con l’invito a picchiare duro anche lui, a entrare a gamba tesa su Trump, Rubio e Cruz. Jeb non lo ha fatto: per fedeltà alla sua promessa di sviluppare una campagna in positivo, ma soprattutto perché incapace di mosse spregiudicate. L’ultima carta che ha giocato è stata quella del fratello George. Il 43esimo presidente Usa è arrivato in South Carolina per sostenerlo, lodando il suo buon senso e la sua competenza. Non ha funzionato nemmeno questo. Forse perché, come ha sostenuto lo scrittore Matthew Yglesias, per molti americani il vero erede ideologico di George Bush non è Jeb ma proprio Donald Trump. Che, certo, ha condannato la guerra contro l’Iraq da lui scatenata 13 anni fa, ma quanto a populismo, determinazione e sfrontatezza somiglia a George molto più del fratello. E per George jr è, in fondo, una rivincita. Per anni è stato descritto come un usurpatore: il fratello «scemo», il Bush sbagliato che aveva fatto il presidente al posto di quello più brillante e meritevole. Non ci cascate, sussurravano i suoi collaboratori: «George inciampa sulla grammatica solo per ridurre la distanza con la gente umile che lo vota».