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 2016  febbraio 22 Lunedì calendario

Fine di una dinastia politica: Jeb Bush si ritira

Non era realistico, col senno di poi e pure col senno di prima. Non era realistico neanche in un Paese che ama la politica dinastica assai più di quanto ammetta, che la stessa famiglia nucleare producesse tre presidenti in ventotto anni. Non era plausibile, poi, che un maschio beta dalle maniere patrizie o quasi avesse la meglio in una banda di avversari variamente feroci: il bullo miliardario Donald Trump, il cattivo compiaciuto della sua cattiveria Ted Cruz, e il suo ambizioso ex protetto Marco Rubio. Alla fine, per recuperare, John Ellis Bush detto Jeb, bene educato e benissimo finanziato, ha tentato di fare l’americano macho con risultati patetici: ha postato su Twitter una foto della sua pistola col suo nome inciso sopra e ha scritto sotto «America». L’hanno preso in giro in parecchi, incluso il sindaco di New York Bill de Blasio che ha twittato, con la dicitura «America», un sandwich col pastrami. L’America è molte cose diverse per miliardi di umani. Da ieri, non è più cosa da famiglia Bush.
Nei necrologi della campagna fallita di Jeb ci sono molti lamenti sul Partito repubblicano che fu. Che è finito anche grazie al Bush che è stato più a lungo alla Casa Bianca, George W., simpatico, forse non una grande mente, già ora ricordato per le guerre disastrose, la controversa – eufemismo – politica economica, il conservatorismo sociale. Che era ben rappresentato dal fondatore della dinastia, il banchiere e senatore Prescott Bush. Bush primo, che viveva nel Connecticut, verrebbe considerato dai repubblicani di oggi un pericoloso liberal, pure assassino di feti. Nel 1947, fu tesoriere nella prima campagna nazionale di Planned Parenthood, l’organizzazione che nei suoi consultori fornisce anticoncezionali e fa aborti, alla quale i repubblicani ora vorrebbero togliere i finanziamenti pubblici. Il suo attivismo gli costò il voto cattolico, la prima volta che si candidò al Senato perse per mille voti. Bush nonno era presidente, nel suo Stato, del College Negro Fund, anche.
Suo figlio George Herbert Walker, eletto nel 1988 e prima vice di Ronald Reagan, è stato l’ultimo presidente Wasp. Acronimo per bianco anglosassone protestante ma soprattutto per altoborghese dell’East Coast. Dopo aver combattuto nella Seconda guerra mondiale, era andato a cercare fortuna in Texas senza mai diventare texano. Fu fortunato in politica estera – con la prima guerra del Golfo, con la caduta del muro di Berlino – e sfortunato nella politica fiscale. Il suo slogan elettorale era stato «leggete le mie labbra: niente nuove tasse», e poi era stato costretto ad aumentarle. E perse contro Bill Clinton, dopo un solo mandato.
E Jeb era il figlio più stimato da lui e dalla moglie Barbara. Più Bush vecchio stile di George W. (che è molto texano), più riflessivo e articolato. A guardare bene, non più liberale. È stato un governatore della Florida serenamente reazionario; e poco serenamente – molto è stato detto del dramma del fratello intelligente costretto a oscuri maneggi per favorire il fratello ex buono a nulla – ha gestito riconteggi e polemiche sul voto nel suo Stato, nel 2000, quando W. contendeva la vittoria ad Al Gore. E forse, ora, potrebbe fare due chiacchiere con Gore. Potrebbero scandalizzarsi insieme per le nuove dinastie politiche aggressive, rozze e bling-bling, come i Trump, insomma (l’America e il mondo ora attendono la discesa in campo delle Kardashian, certamente più equilibrate e inclusive, per dire).