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 2016  febbraio 20 Sabato calendario

20 febbraio 1986, il giorno che Berlusconi si comprò il Milan

Da quando nel 1978 Silvio Berlusconi cominciò a sintonizzare gli italiani sulla tv che diffondeva la sua immagine compiaciuta e divulgava i riferimenti culturali del suo mondo, l’autocelebrazione e il calcio sono cardine e cifra di una retorica immarcescibile. Appare dunque insolito che la data di oggi – 30 anni di presidenza del Milan con 28 trofei vinti – rimbombi assai meno di altre precedenti: verrebbe da pensare a un guizzo di sobrietà, se non fosse per il sospetto della legittima stanchezza. I dispacci sul tema elencano il pranzo a Milanello con la squadra, Barbara e Galliani, un paio di interviste, un video sui social e sul maxischermo di Casa Milan, l’ingresso gratis al museo per i nati nel 1986, la maglia speciale con scritta dorata che i giocatori indosseranno tra 7 giorni col Torino.
Non fu un giorno qualunque, e non soltanto per la storia del calcio italiano, quello in cui il club agonizzante passò dalle mani del ruspante Farina, che affittava Milanello per i matrimoni, alla saldissima presa del re dell’edilizia milanese e soprattutto delle tv private, intimo di Craxi e futuro dominus del centro-destra. In 30 anni Berlusconi ha fatto del Milan la creatura più preziosa: veicolo di immagine vincente, terreno di sperimentazione politica e di spericolata pratica del mercato ultraliberista, moltiplicatore di autostima, emblema consolatorio e rifugio dalle batoste giudiziarie, purgatorio dei pubblici peccati presso l’indulgente popolo tifoso e naturalmente straordinario vaso comunicante per le fortune di Mediaset.
Quale che sia l’origine della fatidica trattativa – l’amore infantile per il Milan, come tramandano i romantici, o la percezione dell’enorme potenziale pubblicitario, sperimentato soffiando alla Rai con Canale 5 il Mundialito dell’81 – nulla fu più come prima. L’ambizione di Berlusconi trascinò l’Italia del calcio a un nuovo e spregiudicato concetto di gioco. Bisognava attaccare, non più difendersi. Dominare, non più aspettare. Giocare per vincere sempre, in trasferta come in casa. Serviva un demiurgo visionario: lo scovò in Sacchi, eretico utopista. Poi servì un pragmatico in grado di conservare il sogno e l’intuito plasmò l’uomo d’azienda Capello come formidabile gestore di uomini. Quando infine servì il buon senso, per non disperdere il patrimonio, l’intuito pescò ancora Ancelotti, sensibile conoscitore del mondo milanista.
Affievolito dopo 21 anni l’intuito, prosciugato un mare di soldi, insostenibile la concorrenza di oligarchi, sceicchi e magnati vari, scattò l’austerity per chi seduceva i campioni offrendo il doppio degli altri. Ma intanto era incancellabile la gloria, col magistrale colpo di coda di Atene a vendicare con lo stesso Liverpool la beffa di Istanbul, sublime porta verso la Coppa Campioni.
Oggi il Milan brama un posticino in Europa dopo un biennio di astinenza, il fido Galliani si becca ogni colpa per i mercati avallati dal padrone, la diarchia in cagnesco con Barbara si rivela sciagurata, il tesoretto degli ingaggi risparmiati (20 milioni) verrà azzerato dalla grottesca vicenda dello stadio mancato al Portello con richiesta di risarcimento danni da Fondazione Fiera (tra i 25 e i 30 milioni). Lo strano sogno residuo ha le sembianze del thailandese Bee, improbabile masochista disposto a versare mezzo miliardo per la minoranza. Nella cruda retrospettiva del trentennio riaffiorano le inchieste sui fondi neri, la mazzata inferta alla Milano della pallavolo, del rugby e dell’hockey col ripudio della Polisportiva Milan nel ’94, i proclami disattesi. Riemerge, in sostanza, l’insostenibile leggerezza di Silvio Fregoli. Da premier abbandonò «con dolore» la carica di presidente del Milan per il conflitto d’interessi, salvo varare la legge spalmadebiti che medicava la sciagurata gestione dei club. Da politico, col pretesto del pallone, violò il silenzio parlamentare del week-end e addirittura quello della vigilia delle elezioni. Da condannato ai servizi sociali usò Milanello come Golgota personale.
Non è certo il primo a sfruttare il calcio: dal monarchico Achille Lauro presidente del Napoli all’attuale presidente dell’Argentina Mauricio Macri già numero 1 del Boca, la lista è infinita. E lui, almeno, potrà sempre piazzare un quadro di Van Basten, Maldini, Gullit, Baresi, Savicevic, Shevchenko, Kakà, in quell’esemplare condensato di berlusconismo che è la biblioteca della villa di via Rovani, dove a febbraio ’86 prese la decisione di comprare il Milan: al Canaletto appeso alla parete risponde lo scaffale con due Telegatti giganti, l’ellepì di Nadia Cassini e la Coppa disciplina della mitica Edilnord allenata negli anni ‘60 a «congelare il giuoco», mantra ripetuto a ogni mister fino a Mihajlovic. Gattuso è meglio di Guttuso, per i milanisti. Eternamente grati, ma scettici sulle due nuove finali di Coppa Campioni nei prossimi 5 anni. L’ultima promessa di Dorian Gray, prima delle elezioni per il sindaco di Milano.