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 2016  febbraio 20 Sabato calendario

Il mestiere di essere padre, spiegato da Max Gazzè

Occhi tristi, parla poco, sorride raramente e non fa niente per mettersi in mostra. «Non mi sono mai sentito il frontman della band, più il bassista casomai», esordisce Max Gazzè, che sta portando in giro per l’Italia il tour promozionale dell’album Maximilian, il dodicesimo della carriera.
«Chi l’ha detto che un cantante è il leader? Suoniamo insieme da decenni, prendiamo decisioni democraticamente, mi confido con loro. Sono veri amici». Poi c’è la famiglia vera, quella naturale, tre figli con la prima moglie, dalla quale ha divorziato nel 2010 dopo quindici anni di matrimonio, e una piccolina dalla nuova compagna. È la responsabilità di padre che lo assorbe più di quella del pop singer, appassionato tanto di musica quanto di fisica quantistica e filosofia (Gazzè parla con la stessa competenza di rock, jazz, David Bohm e Jiddu Krishnamurti). Di tenerezza e preoccupazione per i ragazzi è stracolmo anche l’ultimo cd. «Ti aspetterò, ti scriverò, ti perderò / Ancora mille volte ancora / Ti scorderò, ti rivedrò, ti abbraccerò / Di nuovo per ricominciare».
Canta così in Mille volte ancora, e dal video in cui compare vestito da astronauta s’intende chiaramente che sono parole rivolte ai figli. «È ambientato in una stazione orbitante nel 1984, riferimento a Orwell non proprio casuale», spiega. «Un padre che dallo spazio partecipa al compleanno della figlia attraverso un computer portatile dell’epoca, giusto il tempo di vedere la bimba che soffia sulle candeline poi la trasmissione si interrompe. È una metafora della comunicazione tra padre e figlio. Nella prima infanzia il padre tende a essere una figura che si defila fino a diventare marginale. È nel periodo dell’adolescenza che acquista più importanza, quando è difficile capire le varie fasi della crescita – i tredici anni son diversi dai quattordici… poi in un lampo si arriva ai diciotto e ti ritrovi coinvolto in mille dinamiche diverse». Più difficile per lui, che di figli ne ha quattro e di tutte le età: la più piccola due anni, una di dieci, una di quindici e un maschio di quasi diciotto. «Di mamme due sole, per fortuna», scherza Gazzè, 48 anni. «Il tema scottante, da sempre, è l’assenza della figura paterna», continua. «Una volta sono andato a parlare con uno psicologo: ma come deve essere un padre? Un tempo l’assenza era culturalmente giustificata, contava più l’autorità che la presenza. Oggi per fortuna non c’è più questa separazione». La faccenda diventa maledettamente complicata quando si tratta di genitori separati. «È stato proprio in quel momento che ho cominciato a costruire un rapporto più concreto con i miei figli», incalza l’artista. «Loro la vivono come una responsabilità di entrambi, arrabbiati col papà quanto con la mamma; io l’ho interpretato come un invito a stabilire un rapporto più profondo. La necessità naturale fa sì che sia la madre a stare più tempo con loro nella prima infanzia; può succedere che il padre si defili e non si occupi in alcun modo della loro crescita. Errore. I figli devono avere rapporti individuali con entrambi i genitori. Nel caso delle coppie separate questo è un percorso obbligato». Impresa ardua, quasi impossibile per un artista. Ore in studio di re- gistrazione, prove, concerti, apparizioni, per non parlare di tutte le controindicazioni del successo, che sono più di quelle scritte nel foglietto illustrativo di un antibiotico. «Già…», annuisce Gazzè, «lo vedo con mia figlia, con la quale ho un rapporto molto profondo. A volte riesco a stare con lei ventiquattr’ore al giorno, anche per lunghi periodi. Appena sono costretto a partire, lei mentalmente trasferisce altrove la sua quotidianità, perché così è abituata; poi ha qualche difficoltà a riadattarsi la volta successiva. I figli devono avere delle certezze, poter contare su un nucleo. Nel mio caso l’identità del padre deve essere ricostruita ogni volta. Ci vogliono impegno, amore, pazienza, perché le esigenze sono diverse a seconda dell’età, delle situazioni, delle assenze più o meno prolungate. I ragazzi cambiano rapidamente, non puoi rimanere ancorato a un’idea preconcetta». Un mestiere impegnativo in quest’epoca di mutamenti repentini. «Ma non c’è via d’uscita», taglia corto Gazzè, «o ci aggiorniamo o fuggono, diventiamo i loro nemici, perché ci sentono diversi, estranei. Con loro niente è scontato, il rapporto deve essere costantemente costruito e alimentato».
Ricorda perfettamente ogni singola volta che è diventato papà, la prima all’epoca de La favola di Adamo ed Eva e della sua apparizione a Sanremo, tra le nuove proposte. Anche lui figlio di genitori separati, cresciuto a Bruxelles con il padre, che per Max immaginava una carriera all’interno del Parlamento europeo. Dislessico, faceva fatica a concentrarsi sulle cose, a meno che non lo appassionassero. E non c’era altro suono che quello del basso che lo stregava. Così a diciotto anni ruppe gli indugi, tagliò i ponti e scappò a Londra. «La paternità cambia le tue priorità, la scala dei valori», mormora. «In effetti è un lavoro che fa la natura. Poi c’è chi non l’accetta, e fugge dalle proprie responsabilità, padri inadeguati che se la danno a gambe in preda al panico. L’importante, al di là del tempo che trascorri con loro, è esserci realmente. I bambini hanno un livello di percezione molto alto, non contraffatto da sovrastrutture mentali e culturali, non stanno lì a interpretare i comportamenti. O ci sei o non ci sei».
Come evitare gli errori travolti dalla frenesia quotidiana? Tentati dalla fatale confusione di ruoli (genitori-amici) della generazione post-sessantottina? Preoccupati delle attività extrafamiliari degli adolescenti? Angosciati dalla precarietà delle prospettive di lavoro? «Per quanto uno possa stare attento a non farne, inevitabilmente se ne fanno. È istintivo, ad esempio, cercare di evitare ai figli i traumi di cui uno è stato vittima. Io che vengo da una famiglia di separati avrei fatto di tutto per non separarmi, invece poi è successo. A quel punto ho cercato in tutti i modi di evitare ulteriori conflitti. È stato importante, anche nelle fasi più critiche della separazione, cercare di essere uniti come famiglia. Siamo stati bravi mia moglie e io, nonostante le difficoltà di mantenere quel tipo di unità vivendo in case separate. Il nucleo familiare esiste, è questo che loro devono sentire. Abbiamo agito con il buon senso scavalcando le decisioni del giudice, che rischiavano di essere traumatiche per noi e per loro. Non bisogna mai mentire ai figli. Quando sei con loro non puoi stare incollato al telefonino o controllare la mail o spedire sms o aggiornare la pagina Facebook. I ragazzi sono più percettivi che analitici, non puoi stare sull’iPad mentre loro giocano, se ne accorgono. Se stai con loro e mentalmente sei altrove, percepiscono al volo che sei distante, e ne soffrono. Devi staccare tutto e esserci. Se stai attento a non fare questi errori quel che ti torna indietro è immenso».