Corriere della Sera, 20 febbraio 2016
Le pelliccette sintetiche in kanecaron. Storia di una fibra che viene dal Giappone
La seconda vita delle pellicce sintetiche – dopo le prime uscite negli anni ‘60 – ha una data d’inizio precisa: marzo 2010, a Parigi Chanel presenta la collezione per l’autunno-inverno ambientata tra i ghiacci del Polo artico con tute, abiti, stivali, giacche, orli di gonne e persino pantaloni in pelliccia. Tutta rigorosamente sintetica. Lo scorso gennaio anche Giorgio Armani ha puntato sulla pelliccia per la collezione maschile del prossimo inverno. Sintetica (e orgogliosamente rivendicata come tale).
Se la «pelliccetta» è riuscita nel miracolo di risalire la corrente, passando dai grandi magazzini di fast fashion alle passerelle più importanti, è perché nel frattempo è cambiato tutto: nel 1980 è nata la Peta – e con lei le prime campagne animaliste, con la crescita di una sensibilità etica che l’ultimo rapporto Eurispes 2016 fotografa così: l’86,3% degli italiani è contrario all’utilizzo di animali per le pellicce, in calo del 4% rispetto al 2015; ed è cambiata – una vera «rivoluzione» – la qualità delle pellicce ecologiche, ora al tatto così morbide e folte da confondersi con i peli che vogliono imitare. Spesso scaldano come le autentiche (dipende dalla fodera usata o dalla doppiatura del tessuto). Di sicuro, costano dal 2 al 10 per cento di quelle in pelo di animale. Un esempio? Una pelliccia di «pancina di lince» – perché il pelo più morbido, maculato bianco e arancio, viene da lì – oggi arriva a costare attorno ai 50 mila euro (senza pensare agli animali sacrificati), mentre la sua imitazione, che non uccide nessuno, ne costa 500.
Ma di che cosa è fatta? E soprattutto: è ecologica davvero? La «pelliccetta» – anche Bruno Massa, che da trent’anni lavora con i peli sintetici la chiama così – utilizzata dalle griffe di moda più importanti, quindi quella dalla qualità tanto alta d’aver consentito il «salto» nella moda che conta, è un’invenzione giapponese. L’Italia, che vanta le aziende tessili più creative del mondo, sul pelo sintetico è quindi costretta a inchinarsi all’Oriente.
Marmotta, visone dorsato, kalgan, orylag, cincilla, lupo, mongolia, volpe, gatto asiatico, scoiattolo, coyote, raccoon (procione) e un’infinità di altri: per ogni pelo vero c’è la versione faux, ne sono stati imitati oltre 200, in tutti i possibili colori e sono realizzati con una fibra sintetica (più precisamente, fibra modacrilica, cioè un acrilico di nuova generazione, molto sofisticato, comunque derivato dal petrolio) chiamata kanecaron, che ha una curiosa storia. Inventata dal colosso giapponese Kaneka nel 1957 per sostituire l’amianto nell’abbigliamento dei pompieri – viste le sue qualità ignifughe – solo in un secondo momento si è pensato di utilizzarla nella pellicceria sintetica.
«Rispetto agli acrilici e al poliestere di cui sono fatte le pellicce sintetiche di basso costo, questa ha una luce e una qualità al tatto abissalmente diversa», spiega Massa, accarezzando una (finta) marmotta nel suo showroom di Milano, che ha come clienti tutte le maggiori griffe. Se la pelliccetta è riuscita a imporsi, un po’ lo deve anche a Massa (amministratore delegato di Daks a metà Anni Duemila e con un passato in altre aziende di primissimo livello): «Ho conosciuto la Kaneka quando ero il distributore in Giappone di Valentino – racconta —. Uno dei loro manager più svegli mi ha chiesto un’idea per sviluppare questo nuovo tessuto e me ne ha spedito un pezzo a Milano, dentro una scatolina. Mi si è aperto un mondo».
Da allora non ha smesso di studiare e proporre peli nuovi da imitare (il suo cellulare è pieno zeppo di foto degli animali più strani). Prodotto in Giappone, il kanekaron viene poi portato in Cina e Corea per la tessitura su telai circolari di base jersey. Apprezzatissimo in molti mercati (come gli Stati Uniti e l’Europa), rifiutato da altri (come la Russia). «Ma anche lì qualcosa sta cominciando a cambiare – chiude Massa—. Le generazioni più giovani, della pelliccia vera, non sanno che farsene».