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 2016  febbraio 20 Sabato calendario

Merkel, Renzi, Hollande, Cameron. Sono tutti soli

Anche la Merkel è sola, come sono soli Hollande e Cameron. Sono tutti soli. In fondo la solitudine del numero primo è una condizione del leader, uno stato di necessità che può tramutare in sindrome se non si dispone di staff autorevoli e di personalità tanto fidate quanto capaci all’occorrenza di esercitare il ruolo del signornò con il capo. Ecco cosa manca a Renzi, ecco cosa lo differenzia dagli altri leader europei: lui è senza rete.
Rottamazione dopo rottamazione, in questi anni il premier ha coltivato la solitudine, facendone un autentico marchio di fabbrica. L’assenza di delega è una caratteristica che lo ha differenziato da tutti gli altri leader, e che non ha precedenti nemmeno in Italia. Perché persino Berlusconi – che è uomo di eccessi e che si è sempre vantato di aver assunto le migliori decisioni «quando mi sono fatto guidare dall’istinto» – ha avuto degli airbag. Renzi no. Renzi non ha un Gianni Letta a cui è consentito alzar la voce per tentare di fargli cambiare una decisione, né ha un Confalonieri che può entrare nella sua stanza per provare a farlo ravvedere.
E in questa fase, cruciale per le sorti del Paese e per le sue ambizioni personali, il presidente del Consiglio che è anche segretario del Pd, sta misurando la fatica di gestire in prima persona i tanti fronti aperti dentro e fuori i confini nazionali. Concentrato com’è nella sfida in Europa, difficilmente può applicarsi nella guida del partito in vista delle Amministrative, e facilmente può scivolare su una buccia di banana in Parlamento.
In questo senso la gestione al Senato della legge sulle unioni civili è emblematica, perché da un mese i segnali provenienti dai Cinquestelle dovevano indurre il Pd a evitare d’inseguire l’accordo con il Movimento. Un mese fa era arrivato (anche) a Palazzo Chigi l’avvertimento di un autorevole esponente della maggioranza, che riferiva una confidenza del grillino Di Battista: «Faremo pagare a Renzi la storia di Quarto. E gliela faremo pagare sulle unioni civili». Promessa mantenuta.
Certo, l’assenza di alternativa rappresenta un punto di forza, a patto però che non si arrivi al punto di rottura. E non c’è dubbio che il premier possa contare sui consigli di Mattarella, che considera «la stabilità il valore politico più prezioso», e che per questo motivo offre suggerimenti al premier nello svolgimento dell’azione di governo con un approccio diverso dal suo predecessore al Quirinale: perché il capo dello Stato esercita spesso la sua moral suasion – sta accadendo anche in queste ore – ma la tiene confinata nella sfera delle conversazioni riservate, e non la rende (quasi) mai pubblica.
Prima di verificare di quanti airbag disponga il renzismo, Renzi è chiamato a ristrutturare il modello di gestione (e ripartizione) del potere. La partita europea è decisiva nella sua strategia, su questo non c’è dubbio, e l’obiettivo di avere mano libera sui conti pubblici per le prossime due leggi di Stabilità, così da poter agire con altrettante manovre espansive per far ripartire l’economia (e vincere le elezioni) impegnerà tutte le sue energie. Dinnanzi a questa impresa persino uno tosto come Calenda, prossimo ambasciatore italiano a Bruxelles, è stato visto prendere il respiro: «Sarà dura».
Ma se un leader è chiamato a decidere in solitudine, non può però muoversi senza rete, senza cioè un gruppo di autorevoli e fidati signornò. Anche perché l’offensiva in Parlamento contro la Germania, stabilita in assoluta autonomia, non solo ha portato allo scoperto quello che il centrista Cicchitto definisce «il partito italiano degli Alemanni», ma ha provocato la reazione del compagno socialista Schulz, irritato per il modo in cui il premier ha parlato delle due maggiori banche tedesche «in sofferenza» per i titoli tossici.
Non bastasse il fronte europeo, c’è poi il fronte nazionale. Come ogni capo di un governo occidentale che abbia un orizzonte di legislatura, a metà cammino anche Renzi sta scontando un momento di flessione al cospetto dell’opinione pubblica: l’indice di fiducia che nel primo anno a Palazzo Chigi aveva toccato il 70% ora si è quasi dimezzato. È la fase più delicata, quella in cui si può consolidare il primato o assistere a un processo di erosione. L’eventualità non porrebbe certo il segretario del Pd fuori dai giochi, ma potrebbe riaprire i giochi.
Al bivio, Renzi è chiamato a decidere come rilanciarsi, sapendo che la strada del voto anticipato non solo è difficilmente percorribile ma renderebbe evidente – se venisse evocata – il momento di debolezza. Il problema del premier piuttosto sta dentro due quesiti. Stabilire come e con chi portare a compimento l’azione di governo fino al termine della legislatura, visti i primi segni di tensione con i centristi e vista l’impossibilità di usare maggioranze variabili in Parlamento. E poi organizzarsi uno staff che lo supporti, che sia fidato e autorevole, e che all’occorrenza sappia anche dirgli no. E queste sono le scelte solitarie di ogni leader.