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 2016  febbraio 20 Sabato calendario

In morte di Umberto Eco

Antonio Gnoli per la Repubblica
Umberto Eco è morto. E il mondo perde uno dei suoi più importanti uomini di cultura contemporanei. Aveva 84 anni, è stato scrittore, filosofo, grande osservatore ed esperto di comunicazione e media. La conferma della scomparsa dell’autore de “Il nome della Rosa”, “Il pendolo di Foucault”, “L’isola del giorno prima” fino all’ultimo, “Numero Zero”, è stata data dalla moglie Renata e dal figlio Stefano a Repubblica ieri sera tardi. La morte è avvenuta alle 22.30 nella sua abitazione milanese.
Due o tre cose venivano in mente incontrando Umberto Eco: il whisky, i calembour e il Medioevo. Le prime due appartenevano alla sua natura giocosa e mondana, l’ultima era il frutto di una strepitosa curiosità mentale. Quel mondo remoto, segnato dalla superstizione e dalle nevrosi collettive, lo affascinava. Può stupire la dedizione a quei secoli, ingiustamente definiti bui, in un uomo che non ha mai dubitato della propria natura illuminista.
Una spiegazione si ricava dal rapporto che ebbe con Luigi Pareyson, i cui vasti interessi filosofici spaziavano dalla cultura antica a quella contemporanea. Il professore di Torino individuò in Eco (nato ad Alessandria nel 1932) e in Gianni Vattimo gli allievi più brillanti ai quali affidare le ricerche più ambiziose e remote. A Vattimo fu chiesto di occuparsi di Aristotele, mentre Eco venne indirizzato sull’estetica di Tommaso d’Aquino. Erano allievi mentalmente agili, spregiudicati, ambiziosi. Provenivano dal mondo cattolico. Arrivavano dalla provincia. Ma si intuì che avrebbero fatto molta strada. Il rapporto con Pareyson fu per Eco fondamentale. Con la libera docenza le loro strade si divisero. Fu solo negli ultimi mesi di vita (Pareyson si spense nel 1991) che avvenne il riavvicinamento: «Compresi che, per quanto forti fossero le divergenze culturali, era pur sempre stato il mio maestro. Se ci fai caso, mi disse, tutti i miei romanzi sono come un Bildungsroman: c’è un giovane che apprende da un legame formativo con un anziano. È la ragione per cui ho fatto il professore e resto in contatto affettuosissimo con tutti i miei studenti».
A quelle parole, pronunciate con una certa nostalgia, mi venne in mente il rapporto tra Guglielmo e Adso ne Il nome della rosa (1980), il romanzo che gli cambiò la vita ma non il modo di pensare. Dopotutto, che cosa fu quel folgorante esordio narrativo se non anche un modo di tornare ai temi filosofici che gli erano più congeniali? Nel romanzo si sforzò di pensare come un uomo medievale. Immaginò, lasciandosene ammaliare, che l’uomo medievale fosse preda di oscure nevrosi alimentate da un’endemica condizione di angosciosa insicurezza. Per certi versi simile a quella nella quale oggi versiamo. Eco ne immaginò un vertice accattivante nella figura di Guglielmo di Baskerville. C’è da dire che
Il nome della rosa ribolle di araldica medievale, di simbologie minacciose, di contese teologiche, di enigmi interpretativi e di immagini mostruose. Da queste ultime Eco si sentiva attratto. Al punto che la riflessione sulla bellezza — di cui si era a lungo occupato secondo i canoni classici dell’antichità — non lasciava fuori il gusto per il deforme e il difforme. Fu, insomma, consapevole che la cultura medievale — affascinata dal prodigioso ma, al tempo stesso, dal difforme e dall’insolito — aveva fornito le basi a un nuovo modo di percepire la realtà e le sue rappresentazioni. Qualcosa di molto simile immaginò per la nostra contemporaneità, afflitta anch’essa dal disordine e dall’irregolare.
Eco amava mescolare generi letterari ed epoche storiche, padroneggiando con abilità borgesiana l’universo dei libri e i suoi segreti. Tra le tante cose, fu anche un bibliofilo raffinato e competente. Come pochi seppe giocare con la realtà. Seppe affrontarla nei suoi toni alti e bassi. Nelle sue paradossalità e infingimenti. Pensava che le teorie del falso e del vero non fossero prerogativa del mondo contemporaneo. E non fosse di nostra esclusiva pertinenza culturale la loro indistinzione. Il Medioevo aveva conosciuto la pratica di una verità riconducibile a Dio. Tuttavia, Dio non sempre era presente e in agguato c’erano i demoni pronti a confondere la mente dei logici medievali. Certo, i processi di falsificazione attuati dal mondo contemporaneo — sia nell’universo politico che in quello mass-mediologico che ben conosceva grazie alla sua esperienza in Rai nei primi anni Cinquanta — toccano solo in minima parte i problemi di fede e di credenza che l’ingenuità medievale aveva posto al centro del proprio universo. E chissà con quale sdegno Tommaso o Agosti- no avrebbero reagito alla messa in discussione del concetto di autenticità. A volte lo scrittore mostrava insofferenza verso chi liquidava i suoi lavori più popolari come il frutto evanescente della postmodernità. Al contrario, la sua mente era quanto di più moderno si potesse immaginare. Enciclopedica, classificatoria, erudita, paradossale. Giocosa. Fu tra i fondatori del Gruppo 63 insieme a Nanni Balestrini, Oreste Del Buono e Angelo Guglielmi, uno dei rari movimenti di neoavanguardia nell’Italia di quegli anni e poi fondatore del Dams, altro esperimento inconcepibile di trasformare in disciplina accademica arti e materie non allineate. Il tutto senza mai perdere l’ironia. Colse nel riso una qualità esclusivamente umana. Capace di allontanare l’uomo dall’idea di morte. Descrisse Rabelais, che congiunse il mondo medievale con il moderno, come il più straordinario interprete dell’ilarità eversiva. In questo richiamo al mondo medievale Eco rintracciava le radici stesse dell’Europa. Non solo nelle acquisizioni cristiane, non solo nelle mire espansioniste che l’Occidente cominciò a darsi con le Crociate e poi attraverso i primi viaggi; ma anche mediante la riscoperta delle conoscenze filosofiche antiche. Il paradigma medievale fu la stella che orientò il suo cammino. Perfino nei rapporti con Joyce, forse lo scrittore contemporaneo che ha amato più di ogni altro, Eco misurò la vicinanza con il Medioevo. La devozione che il grande dublinese ebbe per quei secoli — per Tommaso e la scolastica, come pure per Dante — furono la ragione di un segreto rispecchiamento. Un’idea seminale che lo avrebbe accompagnato per tutto la vita. Tra i grandi meriti di questo intellettuale c’è anche lo straordinario interesse che le sue opere hanno suscitato a livello internazionale. Fu così che l’Italia, quasi d’improvviso, apparve grazie a lui, un paese culturalmente meno asfittico e deprimente. Egli stesso si meravigliò del grande clamore che il suo nome stava producendo. L’ironia lasciò il posto a una sottile preoccupazione. Come se tutto ciò distogliesse dai veri compiti dello studioso di semiotica e di filosofia che nel corso dei decenni ci ha regalato saggi importanti, su tutte le sue variegate materie di studio: da
Opera aperta (1962) ad Apocalittici e integrati (1964); da La struttura assente (1968) a Trattato di semiotica generale (1975); fino alle sue raccolte di articoli, come quel Diario minimo (1963) che contiene due dei suoi scritti più noti al grande pubblico, Fenomenologia di Mike Bongiorno ed Elogio di Franti. E poi ci sono le tante Bustine di Minerva disseminate, negli anni, sull’Espresso, amatissime dai lettori. E naturalmente i romanzi successivi a Il nome della rosa, come Il pendolo di Foucault (1988), L’isola del giorno prima (1994), Il cimitero di Praga (2010) e l’ultimo, Numero zero, pubblicato nel gennaio dello scorso anno. Ma questa produzione letteraria recente non ha esaurito la vitalità di Eco. Perché la sua ultima grande avventura è cominciata lo scorso novembre, quando con il direttore editoriale Elisabetta Sgarbi e un folto gruppo di autori italiani e internazionali ha lasciato Bompiani, nel pieno della fusione tra Mondadori e Rcs, per fondare una nuova casa editrice, La Nave di Teseo. Ed è davvero triste che non abbia fatto in tempo a vederla salpare.

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Dino Messina per il Corriere della Sera

Umberto Eco si è spento ieri sera, alle 22.30 nella sua abitazione milanese. Aveva da poco compiuto 84 anni, essendo nato ad Alessandria il 5 gennaio 1932. Negli ultimi giorni le voci su un suo aggravarsi dello stato di salute si erano inseguite tra allarmi e smentite. Gli amici più cari avevano minimizzato ma il timore che quella forma affettuosa di protezione nascondesse qualcosa di serio era ormai condiviso e conosciuto da tanti. Scrittore, semiologo, filosofo, saggista, docente universitario, operatore culturale, Umberto Eco è stato tante cose, ma è stato soprattutto un grande innovatore. In qualche modo oggi sembra giusto dire che Eco ha contribuito a cambiare la cultura italiana più di qualunque altro intellettuale. E che avere il coraggio, più di cinquant’anni fa, di mettere la propria firma a un saggio su San Tommaso e poi a uno su Mike Bongiorno, era il segno di un cambiamento che non avremmo più potuto e voluto fermare.
Nemico dell’improvvisazione, dell’approssimazione, maniaco della precisione, Umberto Eco, scomparso ieri nella sua casa di Milano in Foro Buonaparte, riceveva i suoi intervistatori che arrivavano da mezzo mondo nell’appartamento che guarda il Castello Sforzesco e il Parco Sempione. I suoi modi cordiali, il tratto di una giovialità straordinaria rendevano simpatiche un’erudizione e una cultura sterminate. Nella biblioteca di casa, dove raccoglieva rarità bibliografiche, classici della filosofia e della letteratura, fumetti, saggi di semiologia, riviste, c’erano naturalmente anche tutte le sue opere, tradotte in decine di lingue.
Il suo Trattato di semiotica generale (Bompiani, 1975) è considerato un testo classico nelle università di mezzo mondo, a cominciare dagli Stati Uniti, dove Umberto Eco ha a lungo insegnato, dividendo l’impegno accademico con l’Università di Bologna, dov’era stato tra l’altro direttore del Dams e poi del Corso di Laurea in scienze della comunicazione.
Nato ad Alessandria il 5 gennaio 1932, Eco si era laureato all’Università di Torino con Luigi Pareyson, il maestro che non aveva mai smesso di citare, con una tesi sull’estetica in San Tommaso d’Aquino, che poi divenne il suo primo libro.
Accanto agli studi accademici, già dal 1954, anno della laurea, Umberto Eco unì l’impegno militante nell’industria culturale: quell’anno assieme a Furio Colombo e Gianni Vattimo vinse un concorso in Rai. Quell’esperienza era il primo passo di quel continuo esercizio tra la cultura «alta» e la cultura «bassa» che sarebbe stato uno dei tratti distintivi della biografia culturale di Umberto Eco. L’esperienza in Rai diede al filosofo l’ispirazione per uno degli articoli culturali più significativi del secondo Novecento, Fenomenologia di Mike Bongiorno . Era il 1961, l’inizio di un’analisi con gli strumenti della filosofia e della semiologia della cultura di massa: tra i titoli più famosi, che ebbero un successo internazionale, Diario minimo , tradotto in inglese con il titolo divertente How to Travel with a Salmon e Apocalittici e integrati , un titolo di cultura alta che sarebbe entrato a far parte del linguaggio corrente.
Protagonista del «Gruppo 63», con il saggio Opera aperta , Eco dette una spinta allo svecchiamento culturale del Paese. Seguirono una serie di studi che l’avrebbero confermato come il fondatore della semiologia italiana oltre che uno dei più affermati studiosi di comunicazione nel mondo.
Con un curriculum di questo tipo, il mondo accademico italiano reagì con un certo stupore, a volte con disappunto misto a invidia, alla pubblicazione nel 1980 di un romanzo giallo, destinato a diventare uno dei bestseller più di successo di tutti i tempi, “Il nome della rosa”, che finora ha venduto nel mondo circa trenta milioni di copie. Una struttura da giallo classico impastata di filosofia e conoscenza storica del Medioevo. Seguirono nel 1988 “Il Pendolo di Foucault”, sui Templari e la sindrome del complotto, “L’isola del giorno prima” (1994), Baudolino (2000, (a misteriosa fiamma della regina LOana”, “Il cimitero di Praga” (2010), in cui affrontò il tema dell’antisemitismo e “Numero zero”, l’ultimo romanzo, uscito a gennaio dell’anno scorso in cui ha messo alla frusta i limiti del giornalismo contemporaneo.
Ogni uscita editoriale di Umberto Eco era un avvenimento non solo per il mondo italiano, ma per l’editoria internazionale. Dopo il successo incredibile del “Nome della rosa”, per il successivo romanzo, ci fu un gioco alle anticipazioni giornalistiche che irritarono non poco il professore. Sicché per il terzo romanzo, “L’isola del giorno prima”, nel 1994 venne organizzato un lancio internazionale in una enorme sala del Frankfurter Hof durante l’annuale edizione della Buchmesse. Le tirature iniziali era ormai da capogiro: si partiva da centinaia di miglia di copie.
Umberto Eco era uomo di passioni e di fedeltà. Per tuta la vita, come molti grandi autori, era rimasto legato alla casa editrice che l’aveva lanciato, la Bompiani. Quando alla fine dell’anno scorso il glorioso marchio editoriale è stato ceduto assieme a tuta la Rcs libri alla Mondadori, Eco ha deciso di accompagnare Elisabetta Sgarbi nell’avventura di una nuova casa editrice, La Nave di Teseo. Un’impresa in cui ha investito una cospicua somma e in cui è stato chiamato a collaborare anche il figlio Stefano.
Umberto Eco trovava il tempo, accanto ai tanti impegni, di collaborare ai grandi giornali italiani. Aveva scritto per “Il Giorno, “La Stampa”, era stato tra le grandi firme della terza pagina del Corriere della sera e da anni scriveva per “la Repubblica”. Era sua una delle rubriche più di successo dei settimanali italiani, “La bustina di Minerva” che concludeva ogni settimana e poi ogni quindici giorni, i numeri del’”Espresso”.

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Stefano Bartezzaghi per Repubblica
«E poi Umberto mi ha detto che non ho la libido docendi». Così suona la battuta con cui il protagonista dei Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino illustra i propri rapporti, catastrofici, con il mondo dell’università. Quell’Umberto sarà stato sicuramente Eco. Tutto il mondo lo ha conosciuto come scrittore erudito ma avvincente, a partire dal Nome della Rosa, pubblicato nel 1980 (come quasi tutti i suoi libri, da Bompiani).
In realtà era già molto noto, e non solo in Italia, come brillante critico e protagonista delle comunicazioni di massa (televisione, giornali, editoria libraria). Aveva animato polemiche culturali, contribuito a svecchiare il dibattito italiano importando testi e idee provenienti da settori disparati (teoria dell’informazione, linguistica, massmediologia, strutturalismo, cognitivismo, avanguardie letterarie e artistiche); aveva colorato le plumbee pagine della pensosità nazionale con i giochi del suo funambolismo satirico e parodico, dai pastiche all’enigmistica; aveva stabilito una rete intercontinentale di conoscenze e rapporti intellettuali, estesa dal Canada, al Brasile all’attuale Estonia e contribuito a fondare una disciplina tanto rigorosa quanto eclettica: la semiotica.
Tutti sapevano che, tra le altre cose, Eco era anche un professore, titolo che in Italia può apparire quasi formale, come venir chiamato «gentiluomo» («dottore» invece equivale a «buon uomo»). Per Eco era diverso. Solo chi è stato suo studente probabilmente ha percepito quanto contasse la libido docendi, che possedeva — lui sì — in massimo grado. La verità è che Umberto Eco è stato professore prima e molto più di ogni altra cosa. Nella sua bibliografia, fatta di titoli passati in proverbio, il più umile e il più autobiografico (ma anche uno dei più preziosi) è certamente il Come si fa una tesi di laurea, del 1975.
Io l’ho incontrato per la prima volta nel novembre del 1981, all’Università di Bologna. Voci di corridoio insinuavano che si facesse regolarmente sostituire dai suoi assistenti, distratto dal lancio internazionale del Nome della Rosa (che, a un anno dell’uscita, stava passando dallo status di inatteso bestseller alla dimensione allora inedita di megaseller planetario). Ma non era vero niente.
All’università Eco si sentiva come a casa propria. Dentro a quelle mura era un docente e non una star (in quegli anni non ho mai visto nessuno chiedergli di autografare il romanzo): bastava bussare alla sua porta per essere ricevuti e gli studenti venivano trattati come colleghi juniores. Eccolo infatti irrompere nell’aula affollata, dove per anni l’avrei visto fare lezione ogni giovedì, venerdì e sabato, fino a maggio, a volte anche con la febbre. L’anima sabauda non gli consentiva di deflettere. E poi gli piaceva proprio.
Quel primo giorno tracciò una linea orizzontale per tutta la larga lavagna, la divise in segmenti regolari, ognuno un secolo, dal V al XV d.C. Per le restanti due ore avrebbe riempito tre fasce parallele alla linea cronologica, dedicate rispettivamente ai fatti storici, a quelli culturali e alle innovazioni tecnologiche. Il Medioevo era di fronte a noi.
Molti citano un proverbio appunto medievale: «Non oportet studere sed studuisse», conta aver studiato, non studiare. Tutte le energie didattiche di Eco sembravano volte in direzione opposta e ancora decenni dopo avrei sentito persone insospettabili dire, dopo una sua conferenza: «Mi ha messo voglia di studiare». Anche a una platea di matricole del Dams, maturate in licei e istituti di chissà quale livello, il suo messaggio arrivava nitido e chiaro: non importa quanto hai studiato sino ad ora, conta che cominci a farlo subito. Dell’Autunno del Medioevo di Johan Huizinga diceva a lezione: «Questo è un libro affascinante, da tenere sul comodino». Chi se lo procurava scopriva che era proprio così: fra docente e studente il patto di fiducia o, meglio, il transfert era attivato; il resto sarebbe venuto da sé.
In un capannello, prima di far lezione, un giorno si toccò un braccio, fingendo preoccupazione: «Mi fa male qui, sarà l’infarto?». Non lo era, decenni di attività lo aspettavano ancora. Ma da quella volta si è poi notato che della propria morte tendeva a parlare con una certa regolarità. Non solo i suoi personaggi romanzeschi più autobiografici raramente sopravvivono alla fine del libro. Anche le
Sei passeggiate nei boschi narrativi (le sue «Lezioni americane»), finiscono con Eco che pensa alla propria morte mentre in un planetario ammira il cielo stellato del 5 gennaio 1932, la notte della sua nascita. Doveva essere un suo pensiero-brivido: l’appuntamento ineludibile con ciò che non significa nulla, che non può essere interpretato, e soprattutto che non si impara né insegna. Che deplorevole inconveniente, l’Inspiegabile, per il caro Professore che non dimenticheremo...

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Gianni Riotta per La Stampa

Filosofo, padre della semiotica, scrittore, docente universitario, giornalista, corsivista felice, esperto di libri antichi: in ciascuna delle sue anime Umberto Eco, scomparso ieri a 84 anni, era una stella internazionale. Ma con i suoi studenti, i lettori, i colleghi, mai Umberto Eco prendeva pose snob che i best seller mondiali, dal «Nome della Rosa» al «Pendolo di Foucault», avrebbero imposto ad altri scrittori, rideva, si informava delle novità, e –accendendo una sigaretta- raccontava l’ultima barzelletta, prima di presentare una nuova teoria linguistica.
Poliglotta, erudito alla perfezione, dalla tesi di laurea sull’estetica di San Tommaso alla lunga milizia giornalistica, sull’Espresso, dove, inviato in America Latina aveva confessato di essere stato «a mezzo passo» dalla love story con una militante, al Manifesto, dove firmava pezzi polemici anche a sinistra, per esempio contro Pasolini, con lo pseudonimo di Dedalus, al Corriere di Ottone, alla Repubblica, Eco ha rivoltato il costume culturale italiano, imponendo agli standard accademici antichi una originalità culturale rivoluzionaria.
Raccontava, senza astio, di essere andato in cattedra molto dopo i suoi coetanei, «perché non facevo gli auguri ai baroni», ma era il suo trattare la cultura «alta o bassa» con la stessa appassionata dedizione a renderlo sospetto agli snob italiani. Che un semiologo, un critico letterario, un filosofo si occupasse di fumetti –era stato tra gli animatori di Linus con Oreste Del Buono-, che un docente predicasse «per capire la cultura di massa dovete amarla, non potete scrivere un saggio sul flipper se non avete giocato a flipper» stuccava i nipotini di Croce. Per i prossimi due giorni leggerete solo articoli in cui tutti daranno del Maestro a Umberto Eco, ma da vivo faticò per affermarsi nell’accademia e molti campioni del passato, Pietro Citati per esempio, lo attaccarono senza complimenti. Il suo manuale «Come si fa una tesi di laurea» spiegava che a scrivere si impara, non è opera da geni pazzi, ma raccomandava ai laureandi di diventare specialisti della propria materia, «la vostra tesi deve essere la numero uno!».
Lui non se ne curava troppo, era pieno di allegria, raccontava aneddoti riproducendo gli accenti e i dialetti, da quando giovanissimo era andato alla Rai dei pionieri, col musicista Berio, con Furio Colombo, ammettendo un lungo flirt con la conduttrice Enza Sampò, ma sempre negando di avere scritto le domande per Lascia e Raddoppia di Mike Bongiorno, «Riotta tu ami le leggende urbane» sogghignava.
Con «Opera aperta» del 1962 e «Apocalittici e integrati» del 1964 Eco schiude un nuovo modo di fare filosofia e critica, utilizzando stili e metodi colti con materiali della vita quotidiana, dimostrando all’Italia che usciva dal boom economico e si apprestava a dividersi con il 1968, come si dovesse fare cultura nel mondo moderno. Il rapporto di Eco con gli studenti fu complesso, ne appoggiò il movimento, prese parte con il mensile Alfabeta alla battaglia culturale del tempo, ma prima di molti altri si rese conto che l’avanguardia del Gruppo 63, che aveva fondato, e la nuova sinistra con cui aveva tanto discusso, si stavano ripiegando su se stesse. E quando il terrorismo lacerò l’Italia Eco ammonì, in aula e fuori, che la cultura non è violenza. Aveva invitato a frequentare i Comitati di quartiere, «oggi Rastignac, l’eroe di Balzac andrebbe lì», ma insisteva nel fare studiare la cultura di destra, dal fumettista Chester Gould al poeta Ezra Pound, «o non capirete nulla».
Allineare ora le date del suo lavoro lascia increduli, nel 1975 pubblica per Bompiani, la sua casa editrice, «Manuale di semiotica», a lungo il testo chiave della disciplina, e già nel 1980 è il tempo de «Il nome della rosa», un romanzo che fu adottato all’Accademia militare di West Point come libro di testo, vivisezionato dagli strutturalisti per decenni, ma letto in metropolitana da gente semplice come un giallo appassionante.
Il corto circuito Alto-Basso era la vita di Eco, e nell’ultima intervista che gli feci per questo giornale, riconobbe «Il nome della rosa fu ispirato dal terrorismo, dagli anni terribile che vivevamo. Avevo in mente la morte di Mara Cagol, la fondatrice delle Brigate Rosse, la violenza settaria» e le gesta di Guglielmo di Baskerville sono inno, amaro e preoccupato, contro l’intolleranza, l’odio, l’ignoranza.
Gentile, generoso, affabile, Eco rifiutò le cattedre che l’America gli offriva scherzando, «non posso mica vivere in un paese in cui non si fuma né si beve un caffè», in realtà perché legato all’Italia, la Alessandria in cui era nato e di cui parlava il dialetto, Milano che amava con la sua casa biblioteca al Castello, gli amici, la famiglia, la moglie Renate e i due figli, Stefano e Carlotta. «Ora –diceva- faccio il nonno e di libri discuto con i nipotini, spiegando a Stefano che si può regalare un fucile giocattolo, il gioco è cultura no?».

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Pierluigi Battista per il Corriere della Sera
Nella cultura italiana dominata dall’idealismo, intrisa di remore cattoliche, condizionata dalla spocchia degli intellettuali marxisti, non era facile far interagire Immanuel Kant e Superman. All’inizio degli anni Sessanta, decennio di irriverenza e destrutturazione dei modelli più sacri, Umberto Eco ci riuscì.
Riuscì anche a combinare filosofia e cultura di massa, teologia e immaginario televisivo, accademia e fumetti. Scrisse la Fenomenologia di Mike Bongiorno e oltrepassò una frontiera.
Umberto Eco era il volto simpatico, scanzonato, sarcastico dell’avanguardia italiana che aveva trovato casa nel «Gruppo 63». Non c’era la posa solenne del trasgressore. Non c’era l’artista o lo scrittore che si prendeva troppo sul serio. Non c’era l’ideologo che voleva dettare la retta linea avanguardistica. C’era l’Umberto Eco che maneggiava con intelligenza e ironia l’eredità culturale per prenderla in giro, mescolando con somma maestria registri che tradizionalmente non potevano toccarsi, l’«alto» e il «basso», la dimensione comica e l’erudizione, i tomi della scolastica medievale e l’irresistibile presa in giro dei classici della letteratura.
La demolizione sarcastica di Lolita di Nabokov che dopo la cura di Eco diventava una strabiliante «Nonita». Oppure l’inopinato Elogio di Franti , il cattivo per eccellenza della tradizione retorica italiana, reso immortale dalla ricattatoria, ma limpidissima prosa deamicisiana. O la stupidità degli editori che non sanno riconoscere la grandezza dei manoscritti arrivati in redazione, e rispediscono al mittente Dante o persino l’Autore della Bibbia.
Bisogna rileggere con attenzione, e senza farsi trascinare da una risata contagiosa che Eco sapeva sapientemente sollecitare, i passaggi più brillanti del Costume di casa , per capire la forza provocatoria di questo intellettuale refrattario ad ogni schema.
Ripassare un po’ di prosa di Umberto Eco, riconoscerne la preveggenza e l’acume per capire come la cultura di massa fosse ancora a quel tempo un oggetto sconosciuto. Potentissimo ma non ancora afferrato concettualmente. Demonizzato dai pedagogismi delle grandi chiese ideologiche ma mai compreso nei suoi meccanismi fondamentali.
Certo, anche Umberto Eco poteva sbagliare, come quando non capì il linguaggio delle Brigate rosse, prendendo i loro comunicati come il frutto di una dettatura poliziesca. Ma la scoperta di Eco dell’«opera aperta» ruppe con schemi consolidati, introdusse un elemento di fluidità, e anche di libertà, in discipline dove vigeva ancora incontrastato il dogmatismo, la conformità a una dottrina, la cronica incapacità di sorridere e di ridere. Quella capacità di ridere che è poi al centro della costruzione narrativa del Nome della rosa , dove i custodi del dogma e della tradizione non arretrano nemmeno di fronte ai più efferati delitti pur di nascondere un testo sul riso che potrebbe far esplodere l’ordine di una biblioteca e dunque l’ordine di un intero mondo. Umberto Eco non conosceva tabù per esercitare la sua arte della trasgressione, dello svecchiamento culturale, della modernità. Senza di lui dovremmo ancora spazzare via molta polvere dai nostri abiti mentali.

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Riccardo De Palo per Il Messaggero
Con Umberto Eco se ne va una delle menti più brillanti, sofisticate e geniali della cultura italiana. Risulta difficile, specialmente per chi ne ha amato la multiforme produzione narrativa e saggistica, scegliere un brano, uno dei libri migliori. Eco era come una di quelle particelle impazzite previste dalla meccanica quantistica, un po’ più vicino o più lontano rispetto a dove avrebbero dovuto essere. Amava spiazzare l’interlocutore, prendersi beffe del lettore. Sempre con uno sguardo bonario e rassicurante, di chi la sa molto più lunga di noi ma non per questo deve farti sentire inferiore. Spesso arrivava, comunque, molto più in alto di dove sia possibile arrivare. Di certo è stato “Il nome della rosa” a lanciarlo nel grande gioco della letteratura mondiale. Quel romanzo nato quasi per scommessa, che mescolava - nei lontani anni Ottanta - erudizione medievistica, savoir faire da noir di altri tempi, e struttura implacabile, da congegno a orologeria. Il film che ne seguì, non fu gran cosa. Ma intanto, tutti favoleggiavano dello scrittore che aveva scritto, certamente, tutto quanto al computer.
DEBOLEZZE
Piace, anche, ricordare Eco per certe debolezze umoristiche, ben più geniali di tanti saggi letterari. Come quel frammento, da “Diario Minimo”, in cui Eco immagina un team di ricercatori marziani di ritorno da una spedizione archeologica sulla Terra. Il relatore, che si rivolge ai suoi “chiarissimi colleghi”, come fosse una qualsiasi relazione universitaria, racconta di avere trovato, sul pianeta distrutto da una apocalisse atomica, solo pochi resti della civiltà umana. E in particolare alcune canzoni di Sanremo. Così, è costretto a risalire a “come eravamo” in base a pochi testi bruciacchiati: I papaveri sono alti alti alti…
Era capace di far sorridere. Eppure, i suoi libri erano come cattedrali. Chi ha letto Il pendolo di Foucault troverà certamente scadenti e stantii certi romanzi arrivati molto dopo, come Il codice da Vinci. La sua erudizione, soprattutto, non conosceva limiti. Ed era religioso, a modo suo, nel senso latino di “religere”, “mettere insieme”. In un modo che piaceva anche a Marguerite Yourcenar, altra grande scrittrice del passato, che con lui aveva più di un punto in comune. Il professore Guido Fink ricordava di averlo visto scrivere i suoi articoli tra una conferenza e l’altra, o durante lo stesso convegno, con una naturalezza che oggi definiremmo “multitasking” - termine che certamente deve avergli fatto orrore. Era barocco, esagerato, camaleontico. In Irlanda aveva ammirato senza esitazione il libro di Kells, un codice miniato di autore ignoto, dalle illustrazioni mostruose, eppure splendide, che sembrano catturarti al loro interno. Ammirava il collega dell’Alma Mater bolognese Piero Camporesi, anche lui scomparso, che come pochi seppe raccontare la sensualità, gli umori, i sapori dell’età moderna.
CONCRETEZZA
Eppure Eco era anche un uomo concreto, uno che amava la materialità dei fatti. Quindi, elenchiamoli. Aveva 84 anni. La sua morte è avvenuta alle 22,30 di ieri sera, nella sua abitazione. Era nato ad Alessandria il 5 gennaio del 1932. Ma come definirlo? Semiologo? FIlosofo? Multiforme e poliedrico scrittore? Dal 2008 era professore emerito e presidente della Scuola superiore di Studi umanistici dell’Università di Bologna. Di recente si era schierato, assieme ad altri colleghi, e contro la direzione dell’economia nazionale, contro la fusione tra Rizzoli e Mondadori. “Le preoccupazioni della stampa europea non sono dovute a pietà e amore per l’Italia ma semplicemente al timore che l’Italia, come in un altro infausto passato, sia il laboratorio di esperimenti che potrebbero stendersi all’Europa intera”, aveva scritto, alcuni anni prima. Guardiava alla stoltezza con orrore: “il problema della Stupidità ha la stessa valenza metafisica del problema del Male, anzi di più: perché si può persino pensare (gnosticamente) che il male si annidi come possibilità rimossa del seno stesso della Divinità; ma la Divinità non può ospitare e concepire la Stupidità, e pertanto la sola presenza degli stupidi nel Cosmo potrebbe testimoniare della Morte di Dio”. Era sempre in un posto diverso rispetto a dove si credeva che fosse. In un tempo diverso, anche, come i protagonisti dell’Isola del giorno prima, in un atollo del Pacifico. Negli ingranaggi di un mistificatore capace di ispirare gli orrori di Hitler, come in Il cimitero di Praga. O come nell’ultimo libro, molto diverso da tutti gli altri, Numero zero. In cui sotto i riflettori è l’informazione stessa, e il protagonista finisce in un ingranaggio molto più grande di lui. Sarà pure la stampa, bellezza. Ma quello che viene stampato non è mai quello che sembra.