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 2016  febbraio 19 Venerdì calendario

L’Italia vista da Luca Zingaretti

Luca Zingaretti ha cinquantaquattro anni, due figlie e due vite professionali. In una interpreta personaggi assortiti in tv, al cinema e in teatro: eroi italiani, avvocati traffichini, chef affascinanti… Nell’altra: «Montalbano sono». Dopo tre anni di repliche, a fine febbraio il commissario spacca- ascolti e trita-share, partorito dalla penna di Andrea Camilleri, torna in tv con due episodi inediti. Incontro Zingaretti nella sua abitazione romana. Mi offre un passito. Parliamo di storie che vorrebbe realizzare e dello stato di salute del cinema italiano. Quando gli chiedo quale sia il suo film preferito, replica: American Beauty. Domando: paura d’invecchiare? «No. Mi piace molto come viene descritta la necessità di ritrovare se stessi». Il ritrovar se stessi è un Leitmotiv zingarettiano che ha il suo apice in The Pride, lo spettacolo che l’attore (in questo caso anche regista e produttore) mette in scena da mesi in tutti i teatri d’Italia. Spiega: «Oltre all’intreccio di vite gay ed etero, quel che si racconta è la necessità e la voglia di cercare la propria identità: definire i propri desideri e la vita che vogliamo a prescindere dai condizionamenti esterni». In tempi di bagarre senatoriali e dibattiti parlamentari sul ddl Cirinnà, il quesito è d’obbligo.
Lei è favorevole ai matrimoni gay?
«Sì. Ho sospeso il giudizio sulle adozioni. Di sicuro sono schifato dal becerume che esce fuori in Italia ogni volta che si parla di omosessuali».
Gli insulti e i toni accesi sono arrivati anche in Parlamento.
«Nel 1985 ho interpretato un gay nello spettacolo teatrale Bent. Alcuni spettatori si alzarono e se ne andarono gridando “Vergogna!”. Temevo che succedesse anche con The Pride e invece… È cambiato decisamente qualcosa».
Sicuro?
«Sì. Io, che sono decisamente etero, dovrò sempre fare i conti col fatto che quando ero ragazzino l’insulto più comune insieme a “figlio di puttana” era “frocio”. Ma ora non è più così. Mia figlia non avrà questo problema. Lei, fortunatamente, sta crescendo in una società multirazziale che condanna ogni discriminazione. Per far digerire a tutti i progressi ci vuole tempo, ma siamo sulla buona strada».
Durante il nostro ultimo incontro, nel 2008, lei era più pessimista: mi parlò di un’Italia politicamente in pieno sbando etico. Oggi sembra più ottimista.
«Recentemente ho letto Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo. Mi ha fatto pensare a quanti errori ha fatto la parte politica a cui aderisco, la sinistra».
Quali errori?
«Per troppo tempo abbiamo pensato di essere dalla parte giusta, solo perché ci sentivamo meglio di Berlusconi. Abbiamo perso il contatto con l’Italia vera e non abbiamo più raggiunto il cuore, la mente e la pancia degli italiani. Ora vedo in giro molto disagio, paura del futuro e il rischio che questo aumenti i livelli di violenza. Ma più che di grandi ricette politiche, l’Italia ha bisogno che tutti comincino o ricomincino a fare il loro dovere. Ognuno nel suo piccolo. Dobbiamo rimettere in movimento il Paese. L’importante è aver piazzato la realtà al centro del dibattito».
Questa critica degli ultimi venti anni di sinistra ha un retrogusto un po’ renziano.
«Non sono nato come fan di Renzi e alcune riforme non mi entusiasmano, ma ammetto che questo governo sta facendo più di quanto sia stato fatto negli ultimi trent’anni. Approfittando del fatto che la sinistra si è tagliata le palle con le proprie mani per ben due volte, questo giovane signore intelligente e molto furbo è arrivato e ha detto: “Ora ci pensiamo noi quarantenni”. C’è molto populismo, ma anche molta ciccia. Molto pragmatismo».
Pragmatismo. Una decina di anni fa lei aveva ventilato l’idea di abbandonare il personaggio di Montalbano. Da allora ha girato altri dieci episodi. Visti i successi e gli ascolti, è stato pragmaticamente costretto a non fermarsi più?
«Mi devi ammazzare prima di costringermi a girare qualcosa che non voglio. La verità è che mi diverto. E poi è da quattro anni che non usciva un episodio nuovo».
In replica Montalbano c’è sempre. Tutti gli anni.
«Questo grazie alla sconsideratezza della Rai, che manda gli episodi in loop. In pratica ripagano il bilancio della tv di Stato con la mia faccia. Ahahah. In realtà dal 1999 a oggi abbiamo realizzato 28 episodi in tutto, circa quanti ce ne sono in un’unica stagione di Distretto di polizia».
Com’è cambiato Montalbano dal 1999 a oggi?
«È più scuro. Ovviamente un po’ invecchiato, ma meno di quanto non sia successo nei racconti di Andrea Camilleri. Montalbano non è il tipico personaggio della tv. È un personaggio letterario, archetipico. Un cinema meno malato del nostro se ne sarebbe impadronito immediatamente».
Perché non è successo?
«In realtà alcune ipotesi sono state fatte».
Lei è stato coinvolto?
«Sì. E il resto del cast era stellare: c’erano grandi nomi internazionali. Non se ne è fatto nulla. L’interesse di molte persone era farlo rimanere una serie tv».
C’è qualche ruolo negativo che in passato ha rifiutato per paura di sporcare la sua immagine?
«Ho rifiutato di interpretare un pedofilo in una determinata storia… C’era una scena insostenibile. Il problema in quei casi è l’immersione nell’energia negativa del personaggio. In quel momento non la volevo sostenere. Non era una questione di immagine, io ho interpretato uno strozzino viscido…».
… e anche il capo di un gruppo di stupratori nel Branco di Marco Risi.
«Film bello e sfortunato. Attaccato ferocemente dalla stampa. Carlo Verdone ha ricordato recentemente che alla base dell’insuccesso del film al Festival di Venezia ci fu una scenata di indignazione della giovanissima giurata Uma Thurman. ’Na simpaticona. Lei fece pubblicità a se stessa, il film ne risentì. In realtà era una pellicola tosta ed era giusto parlare di quei temi».
La tv in Italia: uno scandalo per ogni volta che si cerca di rappresentare il male per quello che è.
«Già, ma ora Sky ha aperto la strada con due tre serie che ricordano quelle americane della Hbo”.
Romanzo Criminale, Gomorra…
«C’è chi protesta perché si rovina l’immagine del Paese. Preferiamo fare come quando negavamo l’esistenza della mafia? I buonisti si rassegnino: l’essere umano è attratto dalla rappresentazione del male. E per noi attori interpretare il male è una sfida agognata. Capisco che a un determinato pubblico piaccia lo schema per cui il cattivo ha sempre una ragione per essere cattivo e comunque non vince mai perché tanto arriva la cavalleria con la trombetta che fa pepe-pepe e salva tutti, ma in Italia si esagera con questo afflato consolatorio».
Le piacerebbe interpretare un ruolo un po’ cattivista da fiction americana?
«Prima o poi lo farò. La nascita delle mie figlie mi ha iniettato un’energia pazzesca: ho voglia di raccontare storie nuove».
Figlie. Fratelli. Suo fratello Nicola, presidente della Regione Lazio, è un big del centrosinistra romano. Tra qualche mese si vota per il nuovo sindaco. Che cosa ne pensa di Roberto Giachetti?
«Chi è Giachetti?».
Ma come… È il candidato preferito da Renzi per il Comune di Roma.
«Oddio, mi sono distratto. Appena finisce la tournée giuro che mi rimetto in pari».
A cena col nemico?
«Con Gianfranco Fini. È preparato».
Lei ha un clan di amici?
«Tra i più antichi cito Fabio, lo conosco dai tempi in cui abitavo nel quartiere della Magliana».
Ha mai conosciuto qualcuno della famigerata Banda?
«Ho conosciuto recentemente Antonio Mancini…».
Soprannominato “Accattone”.
«È come un fool shakespeariano. Il matto che dice la verità ma nessuno gli crede. A chi proclama che Giuseppe Pelosi, l’assassino di Pier Paolo Pasolini, lavorasse per i servizi segreti, Mancini dice candidamente: “Secondo voi i Servizi lasciano circolare uno che sa così tanti segreti?”. Lui sostiene che Pasolini sia stato ammazzato da un gruppo di marchettari che gli voleva rubare i soldi».
Che cosa guarda in tv?
«‘A maggica. La Roma. Guardo molto sport e qualche serie americana: Breaking Bad è il massimo».
Il libro?
«Teresa Batista stanca di guerra di Jorge Amado».
Sa quanto costa un pacco di pannolini?
«Tanto, ma dipende dal peso del figlio. Io li compro on line».
I confini della Libia?
«Egitto, Algeria…».
Conosce l’articolo 12 della Costituzione?
«No».
È quello che descrive il Tricolore. Che cos’è per lei la bandiera dell’Italia?
«La patria. Quando la vedo sventolare e parte l’inno, mi alzo in piedi mano sul patto. Tra l’altro da qualche mese mi sto divertendo a fotografare tutti i tricolori spontanei che incontro. Quando vedo qualcosa di verde che sta casualmente accanto a qualcosa di bianco e di rosso… clic, scatto».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Fare l’esame per entrare all’Accademia di Arte Drammatica di Roma e avere la fortuna di passarlo».
La fortuna? Lei ha raccontato di aver superato prove di recitazione, di canto…
«Quando ci sono seicento candidati e solo venti posti, il fattore C, il culo, ha un ruolo importante».