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 2016  febbraio 19 Venerdì calendario

Un viaggio nell’Italia dimenticata o meglio un’ode alle terre abbandonate

«…T
alvolta  / un topo rosicchia,  / s’alza dalle carte / un  / fruscio  / soffocato,  / un insetto  / smarrito / sbatte  / cieco contro i muri,  / e quando  / piove nella solitudine / forse  / una goccia / risuona  / con voce umana  / come se vi fosse  / qualcuno che piange. /  / Solo l’ombra  / conosce / i segreti  / delle case sbarrate, / solo  / il vento respinto  / o sul tetto la luna che fiorisce…»
E solo Pablo Neruda, che scrisse la struggente Ode a una casa abbandonata della quale abbiamo appena citato un pezzetto, potrebbe capire fino in fondo la malinconia, la vertigine e il dolore che escono dalle pagine di Atlas italiæ. Anno dopo anno, girando l’Italia metro per metro e avventurandosi a volte su viottoli impervi percorsi ormai da rari greggi, rari pastori, rari escursionisti non diversamente da come un secolo fa Umberto Zanotti Bianco si inerpicò a dorso di mulo su per l’Aspromonte fino ad Africo, la fotografa Silvia Camporesi ha raggiunto luoghi abbandonati da decenni. Ricostruendo foto dopo foto un pezzo del Bel Paese che non c’è più.
Certo, non è solo la nostra penisola a portare le ferite dell’abbandono. Si pensi alle ghost town del Far West come Rhyolite nel Nevada, Independence in Colorado o più ancora Bodie in California, che prima d’essere mollata da tutti i suoi cercatori d’oro, bottegai, fabbri, maniscalchi, baristi e puttane era arrivata ad avere, come spiegano le guide, «10 mila abitanti, 65 saloon, 4 sigarai, una Chinatown e innumerevoli bordelli». Per non dire di certe realtà spazzate via dalle guerre o dalle pulizie etniche come Ani, la «Città delle 1001 chiese» rasa al suolo dai turchi che non volevano restasse traccia di quella che a lungo era stata la capitale dell’Armenia.
Tanta bellezza, forse troppa.  Le nostre, però, sono rovine in qualche modo diverse. Che restano lì a testimoniare la specificità italiana. Cioè la capillare diffusione, di regione in regione, di comune in comune, di contrada in contrada, di una cultura artistica, architettonica, paesaggistica, unica al mondo proprio perché sparpagliata ovunque. L’erba, gli sterpi e gli arbusti che hanno ingoiato borghi medievali, antichi monasteri, preziose basiliche confermano anzi, se può esser una consolazione, la sovrabbondante ricchezza del nostro patrimonio storico: abbiamo tanti tesori che non riusciamo, sventuratamente, a farci carico di tutti.
Poi, certo, tra le foto di Atlas italiæ ci sono edifici lasciati al degrado che non meritano una lacrima. Come la nave di cemento costruita una trentina di anni fa con la prua, la poppa e la stiva proprio come un vero transatlantico, sui colli marchigiani di Genga, vicino a Fabriano, a una sessantina di chilometri dal mare. Era un pugno nell’occhio anche nuovo, quell’ecomostro, figuratevi adesso che di anno in anno è sempre più un rudere.
Non mancano però straordinari esempi di archeologia industriale come un cementificio semidistrutto di Alzano Lombardo che ha qualcosa (pare impossibile ma è così) della moschea di Cordova. Edifici dal fascino decadente come le antiche Terme del Corallo di Livorno o la cosiddetta Villa dell’Agronomo a Pianosa dove l’incuria e la sciatteria hanno lasciato spazio alle erbacce e alla selva che stanno aggredendo tutto a partire dalla meravigliosa scalinata d’accesso. Chiese Parrocchiali come quella intitolata all’Assunta a Romagnano al Monte, in provincia di Salerno, devastata dal terremoto del novembre 1980 e lasciata lì, come stava, senza che alcuno rimuovesse almeno le parti del soffitto crollate sui banchi della navata. E ancora esempi di rapidissimo sfacelo come quello dell’hotel Puerta del Sol di Alassio che negli Anni 80 era tra i più esclusivi della Riviera e nel 1982 ospitò il ritiro della nazionale di Enzo Bearzot prima dei mondiali che avrebbe vinto in Spagna e oggi pare come fosse evacuato da un secolo.
Certo, il toccante e insieme agghiacciante reportage fotografico, pur dando spazio a realtà meno note agli italiani come la «Villa di Mezzogiorno» che sovrasta Pistoia ed è ridotta in condizioni disastrose dopo essere stata destinata dalla famiglia Sbertoli a un centro di accoglienza dei malati di mente così che ancora oggi presenta tracce di stucchi e affreschi e insieme certi ambienti ostili dei vecchi manicomi, non poteva mostrare tutti ma proprio tutti i casi di abbandono e di degrado. Mancano, per fare solo un paio di esempi, casi abnormi come il teatro greco di Eraclea Minoa sulla costa meridionale della Sicilia o il castello di Frinco, nell’astigiano, che minaccia di smottare sul paese dopo due crolli successivi nel febbraio  e nel novembre dell’anno scorso. Non basterebbero mille pagine per illustrare tutti gli esempi di incuria che gridano vendetta da Vipiteno a Pantelleria.
Le responsabilità di chi governa. Ma la panoramica di Atlas italiæ basta e avanza per inchiodare chi governa, a Roma come nelle periferie, alle proprie responsabilità. Basti la foto di uno dei saloni della casa padronale di quella che un tempo era la tenuta modello di Leri Cavour, dove il conte Camillo Benso diede, come ricorda una targa ormai invisibile, «mirabile impulso alla coltivazione del riso».
Più ancora però colpisce, nel libro di Silvia Camporesi, la carrellata di quei paesi fantasma di cui dicevamo. Paesi quasi tutti di montagna. Sparsi da nord a sud. Come l’antico borgo e il Castello dei Del Carretto di Balestrino, sulle Alpi liguri, a soli sette chilometri dal mare ma ormai isolatissimo e disabitato dopo essere stato evacuato in seguito a una serie di frane. O il borgo medievale Buonanotte Vecchio, sull’Appennino abruzzese, in provincia di Chieti, che avrebbe attirato l’attenzione di Daniele Kihlgren, l’imprenditore italo-svedese che già ha trasformato in villaggi-alberghi altre piccole e pittoresche contrade abbandonate.
Il “capolavoro”. Su tutti, però, svettano i paesi fantasma in Calabria. Come Roghudi Vecchio, lasciato da tutti i suoi abitanti per Roghudi Nuovo, quaranta chilometri più a valle, dopo alcune alluvioni disastrose. Proprio come in Sicilia dove, dopo il sisma del ’68, i sopravvissuti vennero trapiantati nella Nuova Gibellina (tirata su sui terreni dei cugini Salvo) e dissero forzatamente addio all’antica «Ibbiddina», coperta poi dal mantello di cemento di Alberto Burri, un sacrario per i morti sepolti lì sotto, perché secondo il suo sindaco Ludovico Corrao «non c’era niente da conservare, solo i valori nostri della solidarietà, della famiglia, del lavoro, il resto era miseria, isolamento e oppressione».
L’antropologo Vito Teti, autore di un importante e malinconico libro dedicato proprio ai paesi abbandonati della sua Calabria, Il senso dei luoghi, racconta che li, a Roghudi e nella frazioncina di Ghorio, «il cimitero è l’unico posto ancora vivo e ordinato di un paese ormai morto. Qualcuno continua a tornare a Ghorio. I pastori, qualche abitante della costa, qualche emigrato in posti lontani. Mucche bianche e grandi stanno all’ingresso del paese come statue antiche che continuano a dare il benvenuto a nome degli abitanti che non ci sono più. Salvino ha ancora la casa, dove tiene pochi oggetti e dove torna per alcuni giorni, almeno tre o quattro volte l’anno, soprattutto nel periodo estivo».
Aveva visto «mille immagini, fotografiche e televisive, di Roghudi antica, dall’alto, dal basso, dall’Amendolea verso la rupe, dalla rupe verso il fiume e il mare, dai diversi versanti» e «ascoltato mille racconti e tante storie», Vito Teti, prima di scoprire di persona quel paese abbandonato: «ma nessuna immagine e nessuna storia possono restituire il senso di spaesamento, d’incanto, di inquietudine che provocano la vista e il rumore del paese che si adagia sopra un enorme dente di roccia al centro del letto dell’Amendolea. Il paese ora dà l’impressione di volersi buttare nelle fiumare, ora mostra la voglia di tenersi aggrappato alla roccia per non essere trascinato nel vuoto. Nessuna foto o storia può lontanamente restituire questa luce bianca e accecante che arriva negli occhi e impedisce di guardare, il rumore assordante del fiume e del vento, lo sbattere degli alberi e dei fili della luce, l’odore inconfondibile, penetrante di escrementi ovini. Guardo dall’alto le prime case sventrate, distrutte dall’alluvione del 1971, i tetti aperti e le poche antenne, appena fissate prima dell’abbandono, i fianchi della roccia e il letto del fiume. Roghudi e le sue ombre, i riflessi delle case e delle montagne mi sembrano un dinosauro con le ali, impedito nel suo desiderio di spiccare il volo».
Le ragioni del vuoto.  Silvia Camporesi ha fotografato ciò che resta di Roghudi, di Pentedattilo, di altri borghi evacuati dopo secoli dai loro abitanti. Ma per capire le ragioni di quegli esodi collettivi, per capire come mai gli uomini e le donne che vivevano lì da sempre decisero a un certo momento di smettere di aggrapparsi a quelle contrade e di andarsene verso le Americhe, l’Australia, le miniere belghe o le fabbriche del triangolo industriale del Nord occorre rileggere Corrado Alvaro: «I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati a una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale, e animano i monti cupi e gli alberi stecchiti, mentre la quercia verde gonfia le ghiande pei porci neri».
Come si poteva, vivere così? Tommaso Besozzi, in uno strepitoso reportage per l’Europeo nel 1949, scritto cioè trent’anni dopo i primi voli di linea transoceanici, 43 dopo le prime trasmissioni radiofoniche, 55 dopo i primi trapani elettrici, 60 dopo la prima metropolitana a Londra, 70 dopo la prima lampadina elettrica, quasi 90 dopo la spedizione del primo fax con la foto di Napoleone III, racconta il paese di Africo come una cupa contrada medievale. «Ad Africo, per quanto sia in una conca riparata, a soli cinquecento metri di altitudine, a breve distanza in linea d’aria dalla costa jonica, il grano e la vita non crescono», scrive. «Non c’è acqua né luce elettrica; non ci sono botteghe né locande; la gente mangia un pane color cioccolata, fatto di farina di lenticchie selvatiche; le abitazioni, tolte pochissime, sono di un locale solo, e là vivono assieme uomini e bestie. Ad Africo esistono solo tre case provviste di latrina e ci sono solo tre persone che posseggono un ombrello. Ma, essendo le strade del paese troppo strette perché ci si possa aprire un ombrello, se ne debbono servire unicamente quando vanno a Bova o a Motticelle. Le mucche, in ogni stagione, vagano libere per la montagna e nessuno le segue, perché non danno latte. I pastori, per accendere il fuoco, battono la pietra sull’acciarino».
C’è poi da stupirsi se, scrollati dalle spalle i calcinacci ed essiccate le fanghiglie dell’ultima disastrosa alluvione del 1951, gli abitanti di se ne andarono tutti ma proprio tutti andando a finire in molti il più lontano possibile, dall’altra parte del pianeta e cioè nella cittadina di Griffith, nel nuovo Galles del Sud australiano cinquecento chilometri sopra Melbourne? Hanno vecchie foto del borgo dei padri, laggiù a Griffith. E si fanno il pecorino e la «suprissata» e la ‘nduja. Ma non uno di loro, non uno solo, tornerebbe in Aspromonte.