Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2016
Google e WhatsApp in trincea con Apple contro l’Fbi
Google fa fronte comune con Apple nello scontro con l’Fbi e la magistratura americana sulla privacy. L’amministratore delegato del grande rivale del colosso degli iPhone, che da poco l’ha anche superato al primo posto in classifica nella capitalizzazione di Borsa, ha messo da parte ogni astio per sancire un’alleanza in grado di resistere all’ordine di aiutare gli agenti a “sbloccare” gli smartphone e decriptare i loro contenuti in nome della sicurezza nazionale. Un’allenza unisce due aziende che, tra i sistemi operativi Android e iOs, controllano oltre il 90% dei cellulari al mondo. L’amministratore delegato di Google, Sundar Pichai, ha scatenato una serie di tweet in solidarietà con l’amico-nemico Tim Cook. «Obbligare le aziende a permettere l’hacking può compromettere la privacy degli utenti», ha scritto pur riconoscendo le «significative sfide» legate alla protezione del pubblico «da crimine e terrorismo».
Pichai sottolinea che le aziende hi-tech collaborano e intendono continuare a farlo con le autorità federali. «Diamo alle forze di sicurezza accesso a dati sulla base di valide ingiunzioni legali». Ma, rivolto ai consumatori, ha aggiunto che «creiamo i nostri prodotti per mantenere le vostre informazioni al sicuro». Ed è questa protezione che verrebbe messa in dubbio dall’attuale richiesta del governo, fatta propria dal giudice, che impone alle imprese di offrire un sistema per violare tout court la privacy degli utenti, dei loro dati e dei loro apparecchi. Una simile “back door”, porta di servizio sempre aperta come l’ha definita Cook, anche a detta del chief executive di Google rappresenterebbe «un preoccupante precedente».
Cook in una lettera aperta aveva spiegato che nei fatti l’Fbi, nel chiedere di aprire l’iPhone 5C dell’attentatore del massacro di San Bernardino, vuole che Apple dia vita a un software ad hoc per gli iPhone, penetrabile dall’esterno, e quindi esposto ad abusi e atti criminali, qualcosa che ritiene «troppo pericoloso per essere creato». L’azione federale è stata definita come un “eccesso” fondato su obsolete norme originarie del Settecento e che darebbero ai giudici potere di autorizzare ampie intrusioni.
Pichai cerca di offrire una via d’uscita al muro contro muro tra aziende e governo e alla dicotomia tra diritti dei consumatori e imperativi di sicurezza nazionale. Una via però stretta e tutta ancora da percorrere. «Mi auguro sia possibile una discussione sincera e approfondita», ha indicato. Il giudice del caso Apple ha dato cinque giorni a Cook per presentare formalmente il ricorso in appello preannunciato nella sua lettera aperta.
Il dibattito promette però di allargarsi, in assenza di nuove norme e legislazioni equilibrate, riprendendo il filo conduttore di altre recenti battaglie, dalla denuncia del generalizzato spionaggio elettronico da parte dei servizi segreti americani da parte del pentito della Nsa Edward Snowden, considerato alternativamente un eroe o un traditore (dal governo), ai recenti nuovi accordi transatlantici sul flusso di dati che rafforzano alcune protezioni per i consumatori sull’onda delle pressioni europee.
Nelle ultime ore le prese di posizione di Silicon Valley, a fianco di Apple, hanno cominciato a susseguirsi al di là di Google: dall’associazione per le libertà civili Electronic Frontier Foundation alla coalizione Reform Government Surveillance che comprende anche Facebook e Microsoft, Mozilla e Twitter. Il fondatore di WhatsApp Jan Koum, oggi parte di Facebook, ha parlato di «libertà in gioco».
È stato tuttavia Snowden, oggi paradossalmente rifugiato in Russia, a offrire il commento forse più controverso e pregnante. «L’Fbi sta creando un mondo dove i cittadini devono contare su Apple per difendere i loro diritti anziché il contrario”.