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 2016  febbraio 19 Venerdì calendario

Il segreto sta nei contenuti. Ecco perché Die Zeit è l’unico settimanale che non perde copie

Qual è fra tutti i quotidiani e i settimanali l’unico a non perdere copie, anzi ne guadagna sia pure poche, e a essere in attivo? Ma quello dallo stile più antico, che non vuole assolutamente modernizzare, e dagli articoli lunghi, e a volte lunghissimi.
Die Zeit, il settimanale di Amburgo, come Der Spiegel e Stern, festeggia domenica i 70 anni, e il direttore amministrativo Rainer Esser annuncia che il 2015 si è chiuso con 183 milioni di bilancio, contro i 180 del 2014.
Le copie vendute sono 511 mila, lo 0,3 in più, aumento lievissimo, ma tutti gli altri concorrenti sono in perdita.
Gli utili, secondo tradizione non vengono rivelati, ma dovrebbero essere diminuiti rispetto all’anno precedente, a causa degli investimenti compiuti: Die Zeit dimostra che si resta in salute spendendo in modo oculato, e non tagliando servizi e personale.
Non è facile copiare la ricetta, come sempre avviene per quelle in apparenza semplici. Die Zeit ha sempre la veste che aveva nel 1969, l’anno in cui giunsi in Germania come corrispondente. Era già allora un po’ antiquata, uguale a quella dell’Espresso prima maniera, in formato e con carta da quotidiano. Con il tempo è stato inserito solo un magazin in carta patinata, e null’altro. Quel che conta è la qualità dei servizi. Gli articoli sono lunghi anche un paio di pagine, diciamo da 10 a 20 delle vecchie cartelle dattiloscritte.
Ma, come si insegnava quando ero un giovane cronista, non esistono articoli troppo lunghi se interessanti. Oppure può essere troppo lunga una notizia d’una trentina di righe se prolissa e noiosa. Dovrei aggiungere che continuo a comprare Die Zeit, benché non sempre lo legga tutto, e spesso mi limito a sfogliarlo. Io, tuttavia, sono un lettore di professione che durante la settimana deve aver già letto tutto il possibile, in tedesco e non. Quindi di rado scopro una notizia che non conosco. Quel che si trova nella Zeit sono i commenti e le analisi, apprezzati dai suoi 2 milioni e 200 mila lettori.
Con la Zeit che fa il punto della situazione, si potrà essere d’accordo o meno, ma i suoi giornalisti non sbandano a seconda delle mode, o del successo politico di questa o quella compagine. Rimangono fedeli alla loro linea liberale, intesa in senso tedesco, che sarebbe vicina a quella del nostro scomparso Malagodi, progressisti sulle riforme sociali e conservatori non estremisti in economia. Non a caso, il direttore editoriale fu dal 2002 l’ex Cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt, scomparso di recente a 96 anni, e prima di lui la contessa Marion Dönhoff.
Il settimanale uscì per la prima volta il 21 febbraio del 1946 in una Germania in macerie, appena otto pagine. I dati dei primi numeri non sono noti, all’inizio del ’51, le copie furono 45436. Dieci anni dopo, alla fine del ’61, si superano per la prima volta le 100 mila copie, che raddoppiano nel 1965. Nel 1975 siamo a quota 350 mila, quando Spiegel vende oltre un milione, e Stern un milione e mezzo. E per la prima volta Die Zeit è in attivo. Il mezzo milione viene superato nell’ottobre del 1988.
Inizia una fase discente, e nel 1999 si è sotto quota 440 mila. Si comincia a risalire dall’agosto del 2004, dall’arrivo al timone di Giovanni Di Lorenzo, 57 anni il prossimo marzo, doppio passaporto italiano e tedesco. Se la Zeit non perde colpi il merito è suo, e anche della sua squadra, ma non facciamoci prendere da raptus nazionalisti. I tedeschi amano Di Lorenzo l’italiano, ma lui non ha i nostri tipici difetti, che spesso amiamo scambiare per virtù.