Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  febbraio 19 Venerdì calendario

Hilary Mantel, la romanziera, affascianta dalla Rivoluzione francese, che ha imparato a scrivere grazie al meteo

Per i giornali inglesi è «un capolavoro», divertente ed elegante. Anche se è di una Hilary Mantel diversa. Non quella del grande romanzo sulla Rivoluzione francese (A Place of Greater Safety, in italiano pubblicato da Fazi in tre libri) o su Thomas Cromwell, l’ambiguo e controverso braccio destro politico di Enrico VIII: una trilogia sull’epoca Tudor che, con i primi due volumi, Wolf Hall e Anna Bolena, una questione di famiglia, le è valsa due Man Booker Prize (prima e unica donna). Oltre che una miniserie della Bbc, Wolf Hall appunto, che ha vinto il Golden Globe 2016. È una Hilary Mantel versione romanzo contemporaneo (c’è perfino la morte di Lady D, a un certo punto), quella di Beyond Black che esce ora in Italia, pubblicato sempre da Fazi, col titolo Al di là del nero (pagg. 493, euro 19, traduzione di Giuseppina Oneto): una storia che ha a che fare con domande che «non possiamo evitare» spiega l’autrice, ora impegnata con l’ultimo libro della trilogia su Cromwell. Racconta di Alison, una sensitiva grassa e inquieta perseguitata da un diavolo sguaiato e volgare e da un’infanzia di abusi e violenza, la quale si mette in contatto con i morti per i suoi clienti, fra motel e periferie dell’Inghilterra sud orientale.
Al di là del nero parla di demoni e del mondo dei morti. Come mai un argomento così cupo e difficile?
«Non credo sia cupo. Credo sia complesso e affascinante, e anche inevitabile. Passiamo la vita a pensare che cosa succede dopo la morte, oppure a eludere consciamente la questione. Ma è l’unica domanda che non ci abbandonerà mai».
L’atmosfera del romanzo è qualche volta oppressiva e la protagonista Alison ha un’infanzia terribile, problemi personali e di salute. Lei ha raccontato spesso che da piccola era molto religiosa e ha avuto anche esperienze difficili. È un libro autobiografico, in qualche modo?
«Essere uno scrittore di professione ed essere un medium di professione sono qualcosa di simile. Trascorriamo del tempo in compagnia di persone che gli altri non riescono a vedere, e passiamo ore a parlare con i morti».
Nei suoi libri la violenza c’è sempre. Perché?
«Il conflitto è ciò che guida la narrazione. Un romanziere o un drammaturgo che scrive una scena è sempre alla ricerca del punto di svolta, quando la scena smette di essere quello che era, e smette di essere quello che il lettore si aspetta, e diventa qualcosa d’altro. La violenza è un punto di svolta ovvio, ma potrebbe essere anche di tipo emotivo, non fisico. Potrebbe essere perfino una violenza invisibile, di quelle che si propagano lentamente attraverso la vita di una persona. Osservare, categorizzare i vari tipi di violenza, anche se forse è meglio dire conflitto, è un compito fondamentale per un narratore».
Non ne ha mai paura?
«Non c’è spazio per la paura».
Non ci sono eroi, nei suoi romanzi. Anche se stai dalla loro parte, non sono mai veramente dei «buoni», per esempio Cromwell, Danton, o Desmoulins, o la stessa Alison...
«Eroe o malvagio: spesso è solo questione di chi sei, e dove ti trovi. L’eroe di una generazione è un cattivo in quella successiva. E, una volta che lasci da parte gli esempi più semplici di eroismo, come il sacrificio palese di chi rischia la propria vita per salvare qualcun altro, c’è sempre la possibilità che il cosiddetto eroe si stia prendendo il merito delle azioni di una moltitudine di uomini e donne oscuri, che non raggiungeranno mai la gloria».
Che cosa vuole dire?
«Ci sono esempi di eroismo silenzioso e duraturo nella vita di tutti i giorni, ma può essere difficile rendere attraente per il lettore un certo genere di bontà di basso profilo. Anche se magari siamo ingiusti, sospettiamo sempre che le persone comunemente descritte come buone nascondano un segreto, o siano degli ipocriti. Per lo scrittore e il lettore, comunque, la domanda è: queste persone sono interessanti, hanno una loro complessità? Ci appassiona seguire il loro sviluppo? Combattono, cambiano? E che cosa faremmo noi, nelle stesse circostanze?».
Ma i malvagi, i villain, sono personaggi migliori di cui scrivere?
«Non credo che quelli come Cromwell, Danton o Alison siano dei villain. Ci sono persone malvagie, ma loro non sono tra esse. Sono imperfetti e, come la maggior parte di noi, cercano di fare del loro meglio nelle situazioni dure e a volte singolari in cui si ritrovano».
Al di là del nero è un romanzo contemporaneo. Che cosa c’è di diverso rispetto a quando scrive romanzi storici?
«Riga dopo riga, l’esperienza di scrivere per me non cambia. La differenza ovviamente è la quantità di ricerche da fare, visto che nel romanzo storico devi costruire su un altro piano. Credo che il romanzo storico sia più stimolante, perché porta con sé un insieme più ampio di abilità».
Ma qual è il suo preferito?
«Tendo a essere attratta da tutto ciò che sto scrivendo in quel momento: è la cosa che più mi piace. Ma, se dovessi scegliere, direi il romanzo storico, perché è sempre più interessante fare la cosa più difficile».
Ha cominciato a 22 anni con un romanzo di quasi mille pagine sulla Rivoluzione francese. Non si sentiva sopraffatta? Come ha fatto?
«Avevo tutto il tempo davanti a me. Non ero impaziente».
Preferisce sempre la Rivoluzione francese o l’epoca Tudor? O un altro periodo di cui non ha ancora scritto?
«Sono ancora affascinata dalla Rivoluzione. Come ho detto, qualunque cosa su cui stia lavorando domina tutto il mio interesse. Credo che sia però più una questione di persone, che di epoca: e Thomas Cromwell continua a divertirmi e a stimolarmi, ogni settimana di più che ci lavoro. Non ho ancora trovato qualcuno che possa competere con lui come complessità».
Come ha iniziato a scrivere?
«A dodici o tredici anni svolgevo un esercizio mentale: ogni giorno, camminando per andare a scuola, facevo una descrizione delle condizioni meteorologiche nella mia testa; la facevo e la rifacevo, fino a che mi sembrava corretta. Credo che sia stato allora che sono diventata una scrittrice, anche se non lo sapevo».
I suoi modelli?
«Una domanda complicata. Non ho mai adottato consapevolmente un modello. Ma fin da piccola leggevo moltissimo, con ferocia e attenzione, e quello che ora ho capito è che ogni romanzo ti insegna qualcosa: anche se non ti è piaciuto, ti insegnerà come strutturare una storia; e perfino se è un romanzo pessimo ti mostrerà che cosa non devi fare».
Scrivere comporta un sacrificio? E di che cosa?
«Di tempo: è un lavoro che dura 24 ore al giorno. Della fiducia, a volte: la gente ti chiede, Mi infilerai in un tuo romanzo?. E della vita privata: perché le persone leggeranno la tua opera come autobiografica, che lo sia o no».