Corriere della Sera, 19 febbraio 2016
Ultime sul caso di Giulio Regeni
«La Procura egiziana si sta avvicinando all’identificazione del killer». L’annuncio arriva nel pomeriggio sul portale egiziano filogovernativo Youm7: «Giulio Regeni sarebbe stato ucciso da agenti segreti sotto copertura, molto probabilmente appartenenti alla confraternita terrorista dei Fratelli musulmani, per imbarazzare il governo egiziano».
Dopo aver indicato come possibile causa di morte del 28enne friulano l’incidente stradale, poi il festino gay finito male, poi la rapina e poi il semplice atto criminale, i media egiziani suonano così la grancassa di un ultimo cambio di pista. Ipotizzato sin dall’inizio perché punta proprio dritto contro i più aspri nemici del governo di Al Sisi.
Ma la stessa Procura di Giza, in serata, ieri, ha smentito le indiscrezioni: «Al momento ci stiamo concentrando sull’analisi dei suoi spostamenti e delle sue frequentazioni, questo perché non sappiamo ancora dove sia andato dopo essere uscito di casa il 25 gennaio scorso». Sarà stato davvero un abbaglio del quotidiano?
Aspettano di capirlo gli ambienti investigativi e diplomatici italiani. Il ministro Paolo Gentiloni ha detto che non accetteremo una «verità di comodo». Una svolta non dimostrata potrebbe avere delle conseguenze sul piano dei rapporti tra il governo egiziano e il nostro. Giacché, come ha già dichiarato il premier Matteo Renzi «l’amicizia è possibile solo nella verità».
Invece in quindici giorni di indagini sul posto la nostra squadra investigativa ha ricevuto solo promesse di collaborazione dagli omologhi egiziani. Nessun elemento. Nè le immagini delle telecamere a circuito chiuso, che il Ros e lo Sco vorrebbe visionare anche se vuote. Nè i tabulati telefonici. Nè i risultati dell’autopsia egiziana.
La «svolta», annunciata citava proprio quelle prove. «La Procura di Giza sud, guidata dal presidente Ahmed Naji – si legge sul portale —, sta portando avanti gli sforzi per svelare i misteri e le circostanze» della morte del ventottenne italiano, e parla di «importanti indizi raccolti dopo aver ricevuto il rapporto medico e un resoconto dalle chiamate in entrata e uscita». E aggiungeva che il team di indagine italiano «era in stretto contatto con l’ufficio del procuratore generale» egiziano, con l’obiettivo di «aggiornarsi sugli ultimi sviluppi dell’indagine» e per «metterli a confronto» con i risultati ottenuti da loro. In realtà nemmeno ieri era giunto alcunché dalla squadra investigativa egiziana capeggiata da un poliziotto, Khaled Shalaby, condannato per aver torturato a morte, durante un interrogatorio, un arrestato.
Intanto il caso si fa più spinoso anche in Italia. Di fronte al Copasir, il Comitato parlamentare per i servizi di sicurezza, il direttore dell’Aise, Alberto Manenti, secondo indiscrezioni, avrebbe detto di «non escludere» che i report di Giulio Regeni – sulla situazione sempre più tesa nel sindacato degli ambulanti critici con il regime – «possano essere stati utilizzate da servizi stranieri». Anche se ciò sarebbe avvenuto senza una sua consapevolezza. Perché, come ha riferito il presidente Copasir, Stucchi, «il direttore dell’Aise ha confermato che Regeni non aveva alcuna collaborazione di nessun tipo con le nostre agenzie di intelligence». Manenti avrebbe anche detto che poco prima dell’omicidio di Regeni, ricercatori britannici e americani erano stati rimpatriati e al loro arrivo avevano riferito di violenze subite.
Manenti ha parlato di «coincidenza» per la sua presenza al Cairo il giorno del ritrovamento. E ha ricostruito «ora per ora» cosa ha fatto la nostra intelligence in quei giorni di buio, fino al 3 febbraio, quando il corpo è stato ritrovato. «Gli egiziani – ha concluso Stucchi – hanno commesso errori incredibili».