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 2016  febbraio 19 Venerdì calendario

Jeff Buckley, prima del mito

Angeli si nasce, non si discute, anche quando si prova a sfuggire al proprio ineluttabile destino. Jeff Buckley aveva provato a tenersi lontano, suonava la chitarra, girava per locali accompagnando altri, come se non fosse un prodigio, una di quelle rare, rarissime voci che ci danno la sensazione di intercedere tra noi e un mondo superiore. Un angelo, appunto. Per qualche anno si era anche fatto chiamare Moorhead, come il patrigno, tanto per prendere le distanze da un padre che non gli aveva fatto da padre, Tim, che era cantante, anche lui una sorta di maledetto angelo, e che aveva anche scritto un pezzo straziante dedicato al figlio di cui non aveva voluto essere padre, I never asked to be your mountain.
Poi la rivelazione: Jeff, il figlio, volava ancora più in alto del padre, e sebbene abbia inciso un solo vero album in studio, Grace, del 1994, ogni volta che esce un qualsiasi materiale sonoro che lo riguardi, fosse anche uno scarto, il brivido dell’angelo rivive. Caso pressoché unico nella storia del rock, il rapporto tra album postumi e album ufficiali è sconsideratamente a favore dei primi. Ora tocca a You and I, in uscita l’11 marzo, che raccoglie i suoi primissimi esperimenti in studio, febbraio 1993, una manciata di pezzi rimasti a livello di provino, voce e chitarra, molti dei quali riemersi in varie forme più tardi, in tracce dal vivo, oppure tra le poche registrazioni ufficiali. Ma l’innocenza di questa prime registrazioni è commovente. Buckley passa da Just like a woman di Bob Dylan al grido solitario di Calling you, il pezzo che nobilitava la colonna sonora di Bagdad Cafè, da I know it’s over degli Smiths alle sue Grace (primissima versione) e Dream of you and I, sorvolando su melodie e vibrazioni elettriche con una implicita capacità di rendere tutto un distillato infuocato di poesia. Un fenomeno. Ma anche il momento della rivelazione di quel fenomeno sembra far parte della leggenda, come tutto quello che lo riguarda.
Successe a New York, il 26 aprile del 1991. Lo storico produttore musicale Hal Willner aveva organizzato una serata tributo dedicata al padre. Prima di allora Jeff s’era tenuto a distanza, mai avrebbe cantato quelle canzoni, poi cambiò idea, all’improvviso. Disse di sì a Willner e si presentò in scena proprio per cantare la canzone che il padre aveva scritto per lui: I never asked to be your mountain. I presenti ricordano ancora la profonda emozione. Jeff spiegò poi che l’aveva fatto perché gli dispiaceva non essere stato al funerale del padre. Era un modo per pagare quel debito. In quel momento era nata la leggenda di Jeff Buckley, il figlio che riuscì a volare più in alto del padre, che incise un pezzo di Leonard Cohen, Hallelujah, trasformandolo in una delle più belle performance vocali di tutti i tempi. Così come si sciolgono nelle profondità dell’emozione le versioni inedite di You and I, il vecchio blues Poor boy long way from home o Night Flight dei Led Zeppelin, tratto da Physical graffiti, un disco che gli fu regalato dal patrigno e che lo aveva segnato in modo indelebile.
Scomparve nel 1997, proprio mente stava lavorando al secondo album, intitolato postumo Sketches for my sweetheart the drunk. Successe nel più stupido dei modi, niente abusi di droghe, niente pazzie di fan omicidi. Era a Memphis, il grande crocevia della musica americana, la città di Elvis e di Graceland, l’abitazione del re chiamata “la terra della grazia”, la stessa evocata da
Grace, il suo unico e stupendo album. Quel tardo pomeriggio del 29 maggio del 1997 chiese al roadie di fermarsi sul greto di uno dei canali del Mississippi, aveva voglia di fare un bagno. S’immerse con scarpe e vestiti, si allontanò di poco, passò un battello e Jeff scomparve. Fu ritrovato giorni dopo, sul suo corpo nessuna traccia di alcol e droga, come la famiglia ha tenuto a precisare. Un mistero indecifrabile. Si dice che mentre si immergeva stesse canticchiando con la sua voce di angelo Whole lotta love dei Led Zeppelin.