la Repubblica, 19 febbraio 2016
Sulla morte di Eugenio Carmi e sul saper morire
Ormai vegliardo, al termine di una vita luminosa e fervida (è uno dei maestri dell’astrattismo italiano), Eugenio Carmi ha scelto di morire in Svizzera, nel giorno del suo novantaseiesimo compleanno, dopo avere spiegato ai quattro figli che preferiva essere lui, non il suo cancro, a decidere quando e come congedarsi. Ma il giorno prima dell’addio, senza interventi esterni, Carmi è morto motu proprio, beffando le proprie stesse disposizioni. Conoscendolo, ho potuto sorridere del suo finale stoico e al tempo stesso spiritoso. Mi è tornato in mente il capo indiano del Piccolo Grande Uomo, che presagendo la fine si fa portare dal nipote (Dustin Hoffman) in cima a una montagna per lasciarsi morire. All’opposto di Carmi, inopinatamente il vecchio si alza dal suo giaciglio di commiato e sentenzia: oggi non è un buon giorno per morire, riportatemi a casa. In entrambe le storie, quella vera e quella finta, la morte non è orrore e scompiglio, ma un silenzioso mistero da affrontare senza schiamazzi. Chissà perché questo voler morire, che è anche un saper morire, viene giudicato dagli zelanti un atto di arroganza. Quando è invece l’umiltà – la coscienza della fine – a circondare quei morenti così composti, così a noi fraterni. Ti abbraccio, caro Carmi, e con te tutti coloro che si affacciano alla morte con una così sbalorditiva semplicità.