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 2016  febbraio 19 Venerdì calendario

Banche, Renzi sfida l’Ue a duello (ma non serve)

Con una mossa strategica, Matteo Renzi trasforma un dibattito fra tecnici di un oscuro comitato di Bruxelles in un duello politico plateale: il premier fa sapere che l’Italia «metterà il veto» su qualunque proposta di Berlino volta a ridurre gli investimenti delle banche nel debito pubblico del loro Paese. Per l’Italia sarebbe un cambio d’epoca, perché oggi gli istituti hanno in bilancio titoli di Stato per l’enorme somma di 389 miliardi di euro.
Minacciare un veto non serve, perché in questo caso una robusta maggioranza di governi basta per decidere. La posizione del governo di Roma peserà comunque. Ma strappare il velo della tecnica e mettere improvvisamente questa questione sotto i riflettori dei leader non rimuove due problemi che per ora erano rimasti un po’ nell’ombra.
Il primo è che per il nono anno di seguito il debito pubblico dell’Italia salirà. Anche nel 2016. Sia in assoluto, sia soprattutto rispetto al reddito del Paese. Malgrado l’impegno del governo in senso contrario, questo appare il risultato più probabile dopo un ingresso molto lento dell’intera economia nell’inverno e una la ricaduta dell’inflazione verso quota zero. La crescita reale non supererà l’1,1% nel migliore dei casi, ben sotto le stime ufficiali; neanche l’inflazione salirà all’1% come previsto, ma molto al di sotto. Il risultato è che a fine anno il reddito del Paese risulterà probabilmente più piccolo del previsto di 25 miliardi, o anche più. Mancheranno poi le entrate da privatizzazioni, perché è chiaro che le Ferrovie dello Stato non andranno più sul mercato nel 2016. Quanto al deficit pubblico, Renzi ha detto che sarà al 2,5% del reddito e dunque anche quello un po’ peggio del previsto.
Un debito che ha l’aria di salire ancora dopo la Grande recessione fa risaltare il secondo elemento rimasto in ombra: in prospettiva il governo tedesco dubita profondamente della stabilità finanziaria dell’Italia e delle sue banche, proprio perché queste ultime sono così esposte in titoli di Stato. Dopo la Slovacchia, questo è il Paese nel quale gli istituti impegnano la quota più alta delle proprie attività in debito pubblico nazionale (l’11% dei bilanci, contro l’8% in Spagna, il 7% in Germania e il 3% in Francia).
Questa realtà a sua volta fa tornare come un boomerang l’elemento dal quale l’intera polemica era partita. Questo è un vero veto: la Germania non sosterrà mai un sistema europeo di garanzie sui depositi bancari, finché le banche stesse saranno così esposte sul debito dei rispettivi governi. Per Berlino ridurre gli investimenti degli istituti in titoli di Stati molto indebitati è essenziale, prima di impegnare denaro dei contribuenti tedeschi a garanzia di una crisi bancaria in Italia, Grecia o in Francia. Quando Renzi respinge la richiesta tedesca, di fatto dunque rinuncia proprio a ciò che fino a ieri lui stesso chiedeva con più urgenza: una garanzia europea sui depositi, in modo da scongiurare il rischio di una corsa generalizzata dei risparmiatori agli sportelli non appena una banca finisce in dissesto.
Non è solo un’ipotesi di scuola. L’Italia in questi mesi ha toccato con mano quanto sottile sia la linea fra la normalità e una crisi bancaria. E l’anno scorso proprio l’assenza di una garanzia europea ha scatenato il panico e l’assalto del pubblico alle banche greche, finendo per paralizzare il Paese. Benché le ricette proposte siano discutibili, l’idea tedesca di tagliare il cordone ombelicale fra banche e governi ha dunque una sua logica. In Grecia e a Cipro il sistema finanziario è crollato perché aveva investito pesantemente in titoli di Stato di Atene; quando lo Stato è entrato in crisi, ha trascinato le banche in una sorta di spirale che passa dal debito pubblico, a una stretta al credito, fino all’economia reale.
L’Italia di oggi non è fragile come la Grecia cinque anni fa, ma questo legame a doppio filo fra banche e debito pubblico non è normale, né tradizionale. Fino al 2008 l’esposizione degli istituti italiani in titoli di Stato era appena un quarto rispetto a oggi. Limati gli spigoli delle proposte di Berlino, e delle parole di Renzi, lo spazio tecnico di un compromesso c’è. Basta capire che oggi forse serve più qui che in qualunque altro angolo dell’area euro.