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 2016  febbraio 18 Giovedì calendario

«Per prendere una spia ci vuole una spia». Confessione dell’ex capo della Cia a Roma

«Per prendere una spia ci vuole una spia». Parlare con Jack Devine, già capo della Cia a Roma e in altri posti assai più pericolosi, è affascinante come un film. L’unica differenza è che nel suo caso non si tratta di un film: queste cose Jack, oggi presidente dell’Arkin Group, le ha fatte sul serio.
Cominciamo dal principio: come si addestra una spia?
«Entrai nella Cia nel 1967, e allora facevamo due corsi che duravano mesi. Il primo era quello di spionaggio puro: come si pedina un target, si capisce di essere pedinati, si scambiano messaggi segreti, si fa la topografia clandestina, si sviluppano le relazioni e si recluta. Il secondo era paramilitare: paracadutismo, demolizione, sopravvivenza nella giungla operazioni marittime, addestramento con tutte le armi possibili, in sostanza la preparazione riservata alle forze speciali».
E oggi?
«Lo stesso, però si è aggiunto un addestramento tecnologico molto raffinato, perché questa è la vera rivoluzione avvenuta nel nostro campo».
Cioè?
«Quando andai in Cile negli anni Settanta, a Santiago non c’era neanche un solo corrispondente occidentale. Washington aveva bisogno da me di informazioni basilari. Ora, anche se vai in una dittatura, trovi il ragazzino che ti fa lo streaming clandestino della riunione del politburo e la mette online. Il problema è diventata la verifica dell’enorme quantità di informazioni disponibili, perché magari trovi la stessa notizia su dieci media diversi, ma questo non significa che sia vera: forse stanno tutti pubblicando una falsità, messa in circolazione da un servizio segreto rivale. Perciò sono fondamentali le fonti primarie».
Cosa vuol dire?
«Parlare direttamente con le persone che hanno le informazioni di cui hai bisogno».
Come fate?
«Come voi giornalisti, che avete il mestiere più simile al nostro. Io ti parlo perché ti conosco e mi fido, e tu poi scrivi un articolo. Se invece io avessi bisogno di te come fonte, dovrei portare questo rapporto ad un livello diverso, come fra datore di lavoro e dipendente».
Con i soldi?
«Anche. Ad un certo punto i soldi diventano necessari, per creare un rapporto di dipendenza che garantisca il controllo della fonte».
Soldi, sesso, droga: cosa funziona meglio per reclutare?
«La motivazione. Nella maggior parte dei casi, quando recluti una spia avversaria è perché vuole lavorare per te. In genere si tratta di persone insoddisfatte del proprio governo, magari appartenenti a regimi totalitari, che vogliono avere l’opportunità di stare nella squadra vincente. Alcuni magari sono disperati, perché hanno malversato fondi dello stato e hanno bisogno di contante per restituirli, ma non sono più del 20% dei casi».
Lei era capo della Cia in Italia nel 1988, quando a Roma lavorava anche Aldrich Ames, il più grande traditore dei servizi Usa: come si scopre una talpa?
«In genere sono persone narcisiste, che sopravvalutano le proprie capacità, non riescono a fare una analisi obiettiva dei propri limiti, e quindi sono risentite perché pensano di essere penalizzate. Certe volte ci sono anche problemi di alcolismo, che vanno affrontati subito portando il collega in riabilitazione, altrimenti diventa un rischio. Nel caso di Ames, circolano leggende sul suo stile di vita, ad esempio perché girava in Jaguar. Quell’auto però l’aveva comprata a rate, senza suscitare alcun sospetto. L’unico errore che fece fu acquistare una bella casa in Virginia in contanti. All’epoca la Cia non faceva una vera sorveglianza delle finanze degli agenti, ma ora sì».
E lo beccaste per la casa?
«Fu un campanello d’allarme, ma la verità è un’altra. L’unica maniera davvero efficace per scoprire una spia è avere una tua spia dall’altra parte che ti avverte».
Esiste una gerarchia di tipo militare nei servizi segreti?
«Sì, non si può fare altrimenti. Quando devi condurre operazioni clandestine ci vuole controllo, disciplina e una catena di comando».
Lei, fra le varie sedi, è stato in Afghanistan. Cosa fa un agente segreto, quando arriva in un posto così pericoloso?
«Quando atterri a Roma devi preoccuparti del tuo accreditamento diplomatico, indossi il gessato, e vai ai cocktail per carpire informazione e creati fonti. Quando sbarchi in Afghanistan, o in Siria, indossi il giubbotto antiproiettile, imbracci il fucile e giri con l’auto blindata».
Come è cambiato il mestiere dell’agente segreto dai suoi tempi?
«La tecnologica è stata la rivoluzione più radicale, non solo per l’uso dei computer, gli smartphone, la criptazione, gli strumenti di comunicazione più avanzati. Un tempo la Cia produceva la sua tecnologia, come gli aerei spia U2, i sottomarini, i satelliti: ora i registratori che usavamo vent’anni fa, costruiti nei nostri laboratori, li trovi in un qualsiasi negozio di New York. Ti servono contractor esterni per sviluppare le ultime tecnologie. Poi sono cambiati gli obiettivi e i metodi. Durante la Guerra Fredda, che non mi sarei mai aspettato di veder finire, si andava in gessato ai party: dopo sono cominciati il terrorismo, la proliferazione delle armi, la criminalità organizzata, il narcotraffico. Un tempo le guerre non duravano mai più di cinque anni: ora, in un modo o nell’altro, siamo in guerra dall’11 settembre 2001. Questo ha cambiato tutto. Abbiamo bisogno di intelligence tattica, operativa: chi vive in quella casa, chi sono i suoi parenti, informazioni su cui agire. Ci servono collaboratori locali. Quindi è mutata la nostra cultura. La maggior parte degli agenti della Cia oggi sono entrati in servizio dopo l’11 settembre, e se ti abitui a indossare sempre la mimetica, poi diventa difficile tornare alla vita civile e allo smoking. Spero solo che conserveremo le risorse per sviluppare l’intelligence umana, perché conoscere le intenzioni politiche dei tuoi avversari resta indispensabile».
Quali sono le caratteristiche fondamentali di un agente segreto?
«Una sopra a tutte le altre: il senso della missione, che va condiviso anche dalla famiglia. Se non ce l’hai, se non credi di svolgere un servizio nobile per il tuo paese, diventa molto difficile sopportare gli alti e bassi, e il tormento di questo mestiere pieno di tensione. I nostri agenti vengono sottoposti a test psicologici ogni anno, per garantirne la stabilità mentale. Anche il cameratismo è fondamentale, perché quando capisci che un collega è in difficoltà, devi intervenire per fare in modo che venga aiutato».
Quanto pesa tutto questo sulle famiglie?
«Molto. Ai miei tempi potevi rivelare il tuo mestiere solo al coniuge e ai genitori. Poi ai figli, quando crescevano, per evitare che rivelassero accidentalmente la tua missione. È molto dura. Perciò si cerca di ruotare, evitando di restare troppo a lungo in sedi stressanti: dopo tre anni in Siria vai in Svezia, dove non devi guardarti sempre le spalle, la tua famiglia può venire con te, e i tuoi figli possono andare a scuola. Anche per questo si va in pensione molto presto. Io ho enorme stima dei miei colleghi, così come dei militari e delle forze dell’ordine, che sopportano queste condizioni per tutta la vita: sono veri eroi».