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 2016  febbraio 18 Giovedì calendario

I russi non hanno mai smesso di spiare (vedi il caso della rossa Anna Chapman)

Alex Foley era in gita di trekking con i compagni della Boston International School. Quando sono tornati alla civiltà e hanno acceso i telefonini, qualcuno ha guardato le news sull’arresto di un gruppo di spie russe e ha esclamato: «Ma questi sono i tuoi genitori!». Dieci giorni dopo Donald Heathfield e Tracey Lee Ann Foley hanno confessato a un tribunale americano di essere in realtà Andrey Bezrukov e Elena Vavilova. I loro figli, Alex di 16 anni e Tim di 20, cercavano lo sguardo dei genitori e parlavano con loro in francese (si spacciavano per canadesi per giustificare l’inglese non perfetto). Su Facebook Alex commentava spavaldo le sue avventure in custodia dell’Fbi, e i suoi amici ridevano: sembrava un film, Salt o The Double. Ma l’8 luglio 2010 le dieci spie, quattro coppie e due single, sono state caricate su un aereo e deportate dagli Usa, insieme ai loro figli: Tim e Alex, Kathy e Lisa Murphy che piangevano dopo aver scoperto di chiamarsi Katya e Liza Gurieva, i due piccoli Zottoli, e il figlio adolescente di Juan Lazaro, al secolo Mikhail Vasenkov, generale del Kgb e Eroe dell’Urss, infiltrato all’estero dal 1962 e ormai quasi incapace di parlare russo.
L’ultimo grande scandalo spionistico tra Russia e Usa ha avuto il volto da copertina di Anna Chapman, l’“agente 90-60-90”, che ha fatto passare in secondo piano l’agghiacciante storia degli spy kids. Concepiti come parte della missione, spie a loro insaputa, che hanno visto il sogno di tutti i ragazzini di avere genitori diversi realizzarsi come un incubo. Da un giorno all’altro avevano un altro nome, dovevano parlare una lingua sconosciuta e amare un Paese nel quale non erano mai stati. Per gli americani l’operazione fu un flop – i russi non erano riusciti ad avvicinarsi a informazioni sensibili, scoperti quasi subito – ma Vladimir Putin la dichiarò un successo.
L’importante era che i suoi uomini e donne erano riusciti a spacciarsi per (quasi) americani, e i loro figli – Tim voleva fare il diplomatico, era iscritto alla George Washington University – sarebbero stati infiltrati perfetti. Mosca non si è mai fidata troppo dei doppiogiochisti e degli informatori (che pure hanno firmato le operazioni più brillanti del Kgb). L’eroe della politica e della fiction era il “nelegal”, il russo infiltrato, come Rudoplh Abel, su cui in Urss giravano film anni prima di Spielberg. Gli anti James Bond: 007 non si nasconde, non rinuncia allo smoking e al Martini, mentre i russi vivevano una vita finta e nascosta. Erano i modelli del piccolo Putin, che decise di entrare nel Kgb dopo aver letto Scudo e spada, romanzone su un russo che ha scalato i ranghi delle SS. E l’icona televisiva resta Stirlitz, protagonista di 12 puntate della magistrale mini serie I 17 attimi della primavera, spia russa triste e intellettuale ai vertici del Terzo Reich.
Ovviamente veniva dato per scontato che anche il nemico nel frattempo si infiltrava. «Il nemico non dorme», recitavano i manifesti della propaganda, e le spie venivano cercate dovunque, perfino il capo delle spie di Stalin, Lavrenty Beria, fu fucilato con l’accusa di lavorare per gli inglesi. La passione-fobia delle spie è rispecchiata dal linguaggio: in russo shpion, spia, è sempre il cattivo, l’informatore del nemico, il bugiardo, mentre razvedchik, l’agente, l’uomo in ricognizione, è sempre “il nostro” il buono, che sogna di tornare nella casa Russia. Forse è per questo che un popolo che tanto ha sofferto per i servizi segreti ha amato Putin: non era un shpion, ma un razvedchik. Una specie ormai estinta, e la rossa Anna Chapman – che oggi posa per riviste per uomini e conduce talk show fallimentari – rimpiange ancora i vestiti che ha lasciato a New York: «Alcuni costavano centinaia di migliaia di rubli».