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 2016  febbraio 17 Mercoledì calendario

Le presidenziali Usa sono anche una questione di stile. Vediamo come si comportano ai comizi Hillary, Bernie & Co.

La solita storia, il solito ritornello, le solite domande. I contenuti o il modo in cui sono portati all’attenzione degli elettori? Le parole o il linguaggio non verbale? D’altra parte, perché si fanno i dibattiti nelle competizioni elettorali? Per sentire che cosa hanno da dire i candidati ma anche per come lo dicono, e come contrappongono il loro messaggio a quello dei rivali. E per «vederli», per studiarne la postura, la solidità, l’autenticità. Niente di nuovo, ancora una volta dopo i caucus in Iowa e le primarie in New Hampshire. Elettori, giornalisti, commentatori e blogger hanno dato i voti ai candidati, osservando con attenzione più il come che il che cosa, e tutto questo ridà fiato al dibattito sulla natura delle primarie, e ci si chiede se non siano una competizione che premia (o punisce) più le qualità dell’acting, più la performance che i programmi dei candidati. Un concorso di bellezza.
Domande, come si sa, oziose, perché conta tutto in una competizione elettorale, ed è impossibile scomporre le parti di questo tutto, ed è difficile alla fine capire che cosa conti di più nell’opinione dei diversi elettorati – perché non c’è ovviamente un solo elettorato ma tanti segmenti – e proprio questa miscela di fattori è il rompicapo degli strateghi elettorali. Che infatti non trascurano alcun dettaglio (o quello che al profano può apparire tale). E questa volta c’è qualcosa di più nell’attenzione alla forme. C’è una donna che potrebbe diventare presidente.
Si pensi solo alla voce di Hillary. Si pensi a quanto ha contato anche la sua voce nel flop registrato al cospetto dell’elettorato femminile giovane nelle prime due tappe delle primarie. Una vecchia amica newyorkese, un’elettrice democratica di sinistra, una radical di cultura anni Sessanta, che ha quasi l’età di Hillary, ci spiega così, in un’email, l’estraneità delle ventenni-trentenni alla causa dell’elezione della prima donna, Hillary, appunto, alla presidenza degli Stati Uniti: «Le giovani sono in gran parte inconsapevoli delle lotte per l’eguaglianza portate avanti dalle precedenti generazioni di donne. Ma anche quelle che lo sono, sono più attente al chi-può-fare-che-cosa-per-me-ora? E poi il messaggio di Hillary lascia molto a desiderare nel modo in cui è presentato da lei, dal suo tono. Parla come una docente di studi sociali, la voce stridula e petulante, cosa che infastidisce un sacco di queste elettrici. E poi il collo dritto, la postura perfetta, dà l’impressione della persona arrogante che vuol farla da padrona. Quando si lascerà un po’ andare, quando si rilasserà un po’? Sfortunatamente questa è in grande misura una competizione per la popolarità ed è popolare chi parla con più scioltezza. Il contenuto del messaggio deve andare a sedersi sul sedile posteriore rispetto allo stile con il quale è comunicato che è al volante».
Questa opinione espressa in privato in realtà è una delle parti dominanti della narrativa su Hillary. La sua voce. Il modo in cui si pone, di fronte al pubblico e in rapporto con il rivale Bernie Sanders. In un’intervista alla MSNBC, il giornalista Bob Woodward, famoso per il Watergate ha detto che “strano a dirsi, in gran parte la difficoltà di Hillary ha a che fare con il suo stile e col suo modo di comunicare… urla, c’è un che di tensione nel modo in cui comunica”. Woodward ha così dato il via a un coro di giudizi sprezzanti nella destra, ma anche nel commentariat democratico. E ci si è sbizzarriti nel definire la sua voce «alta, stridula, sgradevole, punitiva, insopportabile all’udito» e uno dei divi del talk show di destra, Geraldo Rivera, si è anche chiesto malignamente se non abbia un problema di udito.
Ovvio che questa valanga di offese abbia suscitato un’ondata d’indignazione. Offese sessiste, è stata la reazione, non solo nel campo clintoniano e non solo tra le donne. Senza contare il fatto che Bernie ha alzato spesso la voce nei dibattiti. Già, ma se lo fa un uomo, è perché s’accalora, s’appassiona…no? «Quando le donne parlano, c’è chi pensa che urlino», aveva detto l’ottobre scorso Hillary Clinton. Consapevole di non possedere le doti oratorie del marito né quelle di Obama, Hillary ha lavorato molto sulla comunicazione, in particolare proprio sulla modulazione delle voce e della gestualità nelle varie e diverse occasioni di una campagna elettorale, dove si deve parlare di fronte a piccoli gruppi, di fronte a grandi folle, con interventi preparati o «a braccio», con ragionamenti o con battute, in comizi e in dibattiti. Hillary è una candidata disciplinata. Grande lavoratrice. Sa adattare strategia e comportamenti al variare delle situazioni. Ascolta, e valuta anche le critiche più feroci. Nell’ultimo dibattito, giovedì sera a Milwaukee, non ha mai alzato la voce, non ha mai dato l’impressione, com’era avvenuto precedentemente, di voler impartire lezioni a Sanders né di considerarlo con condiscendenza un vecchio politico d’altri tempi, una specie d’intruso nel campo democratico, quasi un agente al servizio del nemico conservatore. Al contrario si è confrontata con lui sfidandolo nel merito delle questioni, argomentando, con il massimo rispetto, cercando così di mettere in evidenza l’inadeguatezza dell’aspirazione presidenziale del rivale. Il cambiamento ha funzionato, se è vero – leggendo i commenti dopo il dibattito – che a finire sulla graticola è stato Bernie Sanders. Con il suo dito troppo spesso alzato e troppo spesso puntato contro Hillary, il senatore del Vermont è apparso lui quello che sale in cattedra, e per giunta si è rivelato anche un po’ sessista in questa sua postura.
Alla fine del confronto con Bernie, Hillary ha tenuto a precisare di «non chiedere alla gente di sostenerla perché sono una donna, ma perché sono la persona più qualificata e con maggiore esperienza pronta a diventare presidente e comandante in capo».
Sì, in questo cambiamento ha funzionato il suo riposizionamento. Ma l’ha aiutata anche il dito alzato di Bernie. L’ha alzato e agitato tredici volte, per puntualizzare, sottolineare, attaccare. E se è apparso, lui questa volta, professorale e aggressivo, e perfino minaccioso, è forse perché sentiva più di Hillary il peso della sfida. Fatto sta che, il suo gesticolare da brooklynese, che pure non è certo una novità, questa volta ha dato l’impressione di scarso controllo e di nervosismo. Vero? Certo è che se a Hillary non le perdonano quasi niente (in privato neppure gli osservanti del politically correct), con Bernie è un’altra storia. I sostenitori del senatore del Vermont l’adorano. E anche il suo dito è entrato nel culto. Come il dito alzato della star della pallacanestro Dikembe Mutombo. O come la conferma della sua abilità oratoria, essendo la buona oratoria un combinato giusto di voce e di gestualità, nel quale il movimento delle mani è parte rilevante.
Certo, tutti i politici che salgono sulla ribalta hanno qualche tratto gestuale caratteristico, un tic, una smorfia, che in certi casi ispira simpatia, in altri è foriero di percezioni negative da parte del pubblico. Anche in questa campagna il tema c’è, ha la sua rilevanza. Hillary ne è consapevole. Può intervenire, come già fa, sul suo stile. Ma correndo un rischio. Di alimentare un altro aspetto del suo personaggio su cui si accaniscono i suoi critici: l’inautenticità. L’artificio. Un rischio serio in rapporto alla riconosciuta autenticità di Bernie, della sua storia, del suo messaggio.
Vedremo quanto conteranno queste «form» nelle prossime tornate elettorali, di fronte a elettori del sud, molti elettori «etnici», che non è facile ipnotizzare con gesti azzeccati o con toni ben modulati.