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 2016  febbraio 17 Mercoledì calendario

«Li uccidevano a uno a uno mentre quei poveretti urlavano “Ti imploro, lasciami vivere”». Il leader degli Eagles of Death Metal ricorda quella sera al Bataclan

Lo chiamano The Devil, il diavolo. Ma poche ore fa, per la prima volta in vita sua, è salito sul palco tremando di paura. E ora, davanti a me, la corazza da duro, da rocker, scompare, e gli occhi si riempiono di lacrime che cadono giù dritte sugli anfibi neri. «Quando là fuori ho visto quei ragazzi sorridere e battere le mani a tempo, sono tornato al Bataclan», mi racconta Jesse Hughes dietro le quinte. È tornato a quella sera di tre mesi fa, quando un gruppo di terroristi armati ha fatto fuoco sui suoi fan, in una sala concerti nel cuore di Parigi. «Li uccidevano a uno a uno mentre quei poveretti urlavano “S’il te plaît, ti imploro, lasciami vivere”».
Il death metal è una forma estrema dell’heavy metal: estrema nelle sonorità, estrema nell’ispirazione, legata all’occultismo e all’horror. Ma nonostante il soprannome di Jesse Hughes, gli Eagles of Death Metal, di cui è frontman – per i fan, semplicemente EoDM –, non ne fanno parte. Prendono nome da un accostamento paradossale e scherzoso tra generi lontanissimi, il death metal appunto e le melodie degli Eagles, come se una band italiana si chiamasse «I Pooh del Punk». Nel senso che il loro è un rock californiano ruvidamente classico, molto amato dalla critica e dal pubblico. Jesse poi, con il suo modo istrionico e generoso di interagire con il pubblico, è l’idolo dei fan.
Era pieno di gente il Bataclan, il 13 novembre. E fu lì che morirono 89 delle 130 vittime di quella sera di follia.
Da allora, con l’eccezione di una brevissima ospitata in un concerto degli U2, gli EoDM non erano più saliti sul palco. Quella di stasera, qui al Debaser Medis di Stoccolma, è la prima data con cui riprendono un tour tragicamente interrotto, e ribattezzato Nos amis, in francese «i nostri amici», proprio in omaggio alle vittime. Con tappa a Parigi, dove incontreranno i sopravvissuti all’attentato.
Nei due giorni che trascorro con loro, i ragazzi del gruppo cercano di spiegarmi, tra una prova e l’altra, come sono stati gli ultimi tre mesi della loro vita.
La prima cosa che mi dice Jesse è che non teme il palco, che vuole tornare a suonare: «Lo devo a Nick (Alexander, l’addetto al merchandising ucciso mentre vendeva le magliette della band, ndr), lo devo ai fan». Repubblicano, convinto difensore del diritto di girare armati per potersi difendere, fa lo spavaldo: «Quei figli di puttana ci hanno portato via i nostri amici, ma non ci fermeranno».
Poi però, la sera del concerto, arriva Steev, il manager: «Al gruppo spalla mancano tre canzoni, preparatevi». E tutto cambia.
In camerino i Black Sabbath rimbombano nelle casse, nessuno parla più. Jesse fuma una sigaretta dietro l’altra e si muove a ritmo. Dave, il chitarrista, appoggia la testa su Eden, la seconda chitarra, senza dire nulla. Si ritrovano tutti in piedi nella penombra delle quinte. Non si affacciano a guardare la folla che li chiama. Buttano giù l’ultimo sorso di whisky, e respirano profondamente. Si abbracciano, formando un cerchio che non riescono a sciogliere.
Dove si trova il coraggio per risalire su un palco sporcato di sangue? A spettacolo finito, è la prima domanda.
Jesse, come è stato tornare a suonare?
«Difficile, emozionante, necessario. Quando ho visto il pubblico sono diventato di pietra. Ho rivissuto tutta la paura di quella notte. Li cercavo tra la folla».
Cercava chi?
«Scrutavo i ragazzi, a uno a uno, alla ricerca di quello che mi avrebbe fatto fuori. Ma dopo le prime canzoni mi sono rilassato, e la serata si è trasformata nel momento più bello degli ultimi tre mesi. Un passaggio fondamentale, in preparazione al nostro ritorno a Parigi».
Jesse Hughes ha una guardia del corpo che non lo lascia un istante. Il locale è circondato dalla polizia svedese. Per entrare, si attraversano due posti di blocco. Gli addetti alla sicurezza perquisiscono ogni spettatore, vietato entrare con zaini, borse e giubbotti, tutto va lasciato all’ingresso. L’atmosfera è tesa e, quando mi trovo sotto il palco, mi viene naturale ogni tanto guardarmi alle spalle e memorizzare la posizione delle uscite di sicurezza.
«Sono misure straordinarie», mi spiega Jesse, «volevo che i fan si sentissero al sicuro, mi assumo la responsabilità che niente più accada ai nostri concerti».
Prova sensi di colpa?
«No: siamo tutti vittime. Noi eravamo semplicemente il formaggio nella trappola dei topi. Mi fa così incazzare il pensiero che 89 innocenti siano morti mentre ballavano e cantavano. Loro erano armati fino ai denti, noi imbracciavamo chitarre. Sono credente, ma non li perdonerò mai, quei bastardi».
Se incontrasse uno degli assassini, che cosa farebbe?
«Sinceramente? Gli sparerei. Non intendo vivere nell’odio. Ma perdonarli, mai».
Se chiude gli occhi, che cosa rivede?
«Un gruppo di ragazze sotto il palco. Avevamo chiacchierato insieme, prima del concerto. Hanno cantato a squarciagola tutte le parole delle otto canzoni che siamo riusciti a suonare. Da dietro le quinte le ho viste cadere a terra sotto le raffiche. Avrei voluto salvarle».
Sono rimorsi?
«No, perché non avrei potuto fare nulla. Quando hanno iniziato a sparare, mi sono nascosto e ho cercato di ritrovare Tuesday, la mia fidanzata. Al piano di sopra ho incrociato un terrorista che stava per puntarmi il fucile addosso, ma la canna ha colpito lo stipite di una porta, lasciandomi il tempo di fuggire. Però...»
Però?
«Un rimorso, forse, ce l’ho».
Quale?
«I terroristi erano dentro il Bataclan già prima del concerto. Se solo avessi seguito il mio istinto…».
In che senso, erano già dentro? Gli inquirenti francesi dicono che sono entrati a metà spettacolo.
«Due di loro, io e Shawn (il tecnico del suono, ndr) li abbiamo visti nel backstage prima che iniziasse lo spettacolo. Non so da quanto fossero nel locale, di certo erano già lì quando siamo arrivati. Li ho notati perché non corrispondevano, né nell’aspetto né nell’atteggiamento, alla mia idea del nostro pubblico. Uno dei due, poi, ci guardava storto, tant’è che con Shawn ci abbiamo scherzato su. Ma ho provato una strana sensazione di insicurezza... Ovviamente queste cose le abbiamo dette alla polizia».
Shawn teoricamente non dovrebbe intervenire: il manager della band ha insistito perché intervistassi solo Jesse, leader degli EoDM (e loro fondatore, assieme a Josh Homme dei Queens of the Stone Age). Ma lui ha vissuto tutto l’attacco, quelle tre interminabili ore, e aggiunge un sospetto inquietante sulla capacità dei terroristi di infiltrare anche gli ambienti più impensabili.
«Uno dei terroristi», mi dice, «parlava a due ragazze stese a terra con i fidanzati – avevano tratti nordafricani. Ha detto loro di alzarsi e andarsene, le ha risparmiate. Sembrava che riconoscessero alcune persone, quasi fossero frequentatori usuali di quell’ambiente. Ma per tutti gli altri era l’inferno. Gli assassini sparavano per cinque minuti e poi ricaricavano i fucili. In quei momenti di tregua cercavo di farmi strada tra i corpi per raggiungere l’uscita di sicurezza. Ricordo le suppliche in francese e in inglese. In bocca, il sapore del sangue e della polvere da sparo. Puntavano alla testa della gente, e poi: ra-ta-ta-ta-ta».
Jesse piange, impreca e butta fuori il fumo dell’ennesima sigaretta. Dice che nonostante tutto sta bene, che non ha bisogno di andare dallo psicologo, che cerca di farsi forza anche per suo figlio Micah, che ha 16 anni. Ma la sensazione è che né lui né gli altri siano fuori dal Bataclan.
«In quella notte», racconta, «ho visto il meglio e il peggio dell’umanità riuniti in una stanza. So di persone uccise perché non hanno voluto abbandonare gli amici feriti. Il nostro Nick è morto dissanguato senza fiatare: se avesse fatto rumore avrebbe attirato l’attenzione dei terroristi, e invece lui voleva proteggere la ragazza accanto a lui. Stasera mi sento di dire: abbiamo vinto noi».