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 2016  febbraio 18 Giovedì calendario

La fortuna di essere brutti. Un’indagine scientifica

«Mamma mia, quanto è brutto quello!»: a chi non è scappato, almeno una volta? Ma vi siete mai chiesti se, ad altre latitudini o in altre epoche, di fronte alla stessa persona gli altri reagirebbero come voi? Fredric Brown, nel 1954, scrisse il racconto Sentinella giocando in modo provocatorio sul moto di disgusto di un alieno nel vedere un uomo, “la pelle di un bianco ributtante e senza squame”. Eppure, senza dover scomodare la fantascienza, la Storia è piena di esempi come questo.
Il concetto di bruttezza, ma soprattutto il modo di percepirla e di trattarla cambia infatti nel tempo e nello spazio: basti pensare agli esperti del British Museum che, vedendoli per la prima volta, definirono “brutti” i fregi del Partenone, al punto da dubitare si trattasse davvero dell’opera di Fidia, uno dei più quotati maestri dell’arte greca classica.
QUEL DIAVOLO DI ATTILA. Se poi invidiate gli occhi azzurri, i capelli biondi e il fisico da Barbie della vostra amica, vi consolerà sapere che per gli antichi filosofi arabi i primi due tratti erano una sventura, mentre il corpo longilineo non piaceva né agli uomini rinascimentali, innamorati del seno piccolo e delle cosce abbondanti della Venere di Botticelli, né agli Ottentotti (una popolazione indigena dell’Africa meridionale), estimatori dei grandi glutei femminili, simbolo di fertilità. Insomma, è un dato di fatto: ciò che per qualcuno è brutto, per altri può essere bello e viceversa.
Come si spiega? La bruttezza è un concetto complesso, in cui entrano in gioco anche la cultura, la filosofia e i pregiudizi, oltre all’estetica. «Nell’antichità, e ancora oggi, brutto era essenzialmente il “diverso”, ciò che si opponeva al “nostro” mondo e non appariva riconducibile al sistema culturale vigente: erano quindi brutti gli stranieri, ma anche coloro che non potevano essere buoni guerrieri o buoni cittadini e quelli che non rispettavano l’ordine sociale. Il brutto per eccellenza è uno come Tersite, il soldato deforme e cattivo che nell’Iliade contesta i capi e viene quindi punito e deriso», spiega Marxiano Melotti, antropologo e docente di Storia dei processi formativi all’Università Niccolò Cusano di Roma. Gli antichi vedevano comunemente nei loro nemici, stranieri e per di più ostili, un’innata bruttezza. Un esempio? Lo storico bizantino Prisco di Panion nel V secolo d.C. descrisse Attila più flagello di specchi che di Dio: basso, con la testa grande e gli occhi piccoli, un naso largo e piatto e, peggio di ogni altra cosa, con la carnagione scura. Tratti curiosamente molto simili a quelli con cui il monaco Rodolfo il Glabro descrisse il diavolo cinque secoli dopo.
STREGHE CATTIVE. «Nell’immaginario europeo moderno, tanto cattolico quanto protestante, brutto e cattivo sono spesso coincidenti. E finiscono per coincidere anche con “povero”, l’altra categoria di bruttezza che segnala l’esclusione dal gruppo dei fortunati, ricchi e quindi in grazia del Signore», nota Melotti. Racchie, con nasi adunchi e porri pelosi, mentre danzano frenetiche nei loro sabba, venivano rappresentate le streghe durante il Medioevo, come brutte erano le personificazioni femminili della Vendetta, sia nella mitologia romana (le Furie) sia in quella greca (le Erinni).
E non è un caso: amanti della bellezza classica, espressa nella giusta proporzione di tutte le parti del corpo (così come l’aveva calcolata nel V secolo a.C. lo scultore greco Policleto), gli antichi Greci avevano un sostantivo per descrivere il loro ideale di perfezione estetica ed etica: la kalokagathìa, letteralmente “bellezza e bontà”. Veniva di conseguenza naturale credere che il brutto, cioè “l’assenza del bello” secondo Platone (V-IV secolo a.C.), incarnasse la cattiveria.
Sotto l’etichetta di orrendi, diabolici e maleodoranti, gli Europei raggrupparono, nei secoli, anche i saraceni, gli africani e gli ebrei. Sempre vivo, nell’Ottocento il pregiudizio del “brutto e cattivo” venne nutrito dal medico Cesare Lombroso (1835-1909), che sosteneva che le tendenze criminali di un uomo fossero legate a particolari caratteri anatomici, e dai primi “scienziati della razza”. “Ogni razza è una specie a sé e per distinguerla basta guardarne la bellezza”, diceva nel 1799 il chirurgo inglese Charles White, convinto, anche se lui stesso una gran bellezza non era, che i bianchi occidentali fossero le creature più avvenenti. Ma la discriminazione non colpiva solo gli africani, paragonati per il loro aspetto alle scimmie: in ogni epoca e a ogni latitudine, la risposta alla bruttezza furono spesso il bullismo e la prevaricazione. A Chicago, nel 1881, un’ordinanza stabiliva che “nessuna persona malata, sfregiata, mutilata o deformata in modo da apparire sgradevole o disgustosa (…), può esporsi in pubblico, pena una multa”. Leggi come questa, che venne abrogata solo nel 1974, erano diffuse più di quanto si pensi: anche in Europa.
All’inizio del Novecento, racconta l’accademica americana Gretchen Henderson nel suo saggio Bruttezza: una storia culturale, l’esercito francese vietò ai brutti di intraprendere la carriera da ufficiale: un uomo dal mento sfuggente e con gli occhi sporgenti, si pensava, non sarebbe riuscito a dar ordini senza scatenare l’ilarità dei soldati. E i nostri progenitori? «In diverse culture avveniva una inclusione paradossale degli individui più “brutti” della comunità: nell’antica Grecia venivano utilizzati come pharmakoi, ossia come capro espiatorio. Stigmatizzati come causa di qualsiasi sciagura, diventavano lo strumento con cui la comunità poteva risolvere i propri problemi: molti rituali prevedevano infatti la “cacciata del brutto”, come forma simbolica di allontanamento del male», racconta Melotti. Ad Atene accadeva durante le Targelie, un’antichissima festa in onore di Apollo: un uomo e una donna scelti per la loro particolare bruttezza e per essersi macchiati di una colpa venivano portati in processione, frustati sui genitali con mazzi di cipolle e rami di fico e cacciati dalla città.
IRONIA FACILE. Il conto più salato lo hanno pagato le donne d’ogni tempo. “Salve ragazza dal naso non piccolo, dal piede non grazioso, dagli occhi non neri, dalle dita non lunghe, dalla bocca non ben netta, dalla conversazione non troppo elegante”, scriveva, sicuramente sghignazzando, il poeta latino Catullo (I secolo a.C.). Gli faceva eco, nel Trecento, una ballata di ser Rustico Filippi: “Ovunque vai, con teco porti il cesso (…) chiunque a te sia a presso si tura il naso e fugge immantinente. Li denti e le gengie tue marce lascian passar alito puzzolente”. I lazzi non risparmiavano neppure i potenti: il re di Francia Carlo VIII (1470- 1498), gambette gracili, testa grossa e collo corto, venne definito dallo storico Francesco Guicciardini “quasi più simile a mostro che a uomo”. Nel 1801, lo zar Alessandro I di Russia diventò “il bulletto pelato” per Byron; la regina Carolina di Borbone (1798-1870) venne dipinta come “tanto brutta quanto dissoluta” e “sciaboletta” fu il soprannome affibbiato al re Vittorio Emanuele III di Savoia (1869-1947), così basso (153 cm) da aver bisogno di una spada su misura.
Se questi giudizi spietati vi rattristano più che farvi ridere, apprezzerete allora lo sforzo degli scrittori d’epoca romantica, che scelsero di suscitare non ilarità ma compassione per i loro personaggi meno attraenti: il redivivo mostro di Frankenstein (1818) di Mary Shelley, il gobbo Quasimodo di Notre Dame de Paris (1831) di Victor Hugo e il nasuto Cyrano de Bergerac (1897) di Edmond Rostand. La simpatia verso questi sventurati non si spingeva tanto da assicurar loro il lieto fine, ma tant’è: la vita dei brutti era dura ieri e, in fondo, non è facile neanche oggi. Sul lavoro, per esempio, l’aspetto conta. Un recente studio dell’Università di Messina ha dimostrato che, a parità di curriculum, i candidati più attraenti avrebbero maggiore possibilità di ottenere un colloquio di lavoro. Il motivo: danno al capo l’impressione di essere più intelligenti dei colleghi meno attraenti. Un capo, va detto, che forse ignora che Socrate, il geniale filosofo, aveva la faccia da satiro e il naso a patata.
Certo, c’è chi riesce a trasformare la propria bruttezza in un punto di forza, riequilibrandola con la simpatia o valorizzandola con la sicurezza e l’autostima. Ma se compensare l’avarizia di madre natura con altre doti non vi basta e se non potete contare sui soldi, l’unica cura alla bruttezza secondo Karl Marx, aspettate pazienti e ricordate quel che diceva all’inizio del Novecento il cantante francese Daniel Mussy: “la bruttezza ha un vantaggio sulla bellezza: dura”.