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 2016  febbraio 18 Giovedì calendario

Petrolio, l’Opec ostaggio della guerra tra sciiti e sunniti

Tutto iniziò il 14 settembre del 1960. Quando i rappresentanti di Iran, Iraq, Kuwait, Venezuela e Arabia Saudita si riunirono a Baghdad con un obiettivo ben chiaro: creare una coalizione di Paesi esportatori per contrastare il potere delle sette sorelle, le principali major energetiche che estraevano petrolio, soprattutto in Medio Oriente. Venne creata così l’Opec, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio.
Coordinando le politiche produttive il Cartello influenzava l’andamento dei prezzi del barile; tagliando la produzione per farli risalire, aumentandola per riequilibrare i mercati. Negli anni successivi l’Opec si allargò. Fino agli attuali 13 membri (Indonesia inclusa). Divenne così potente da mettere in ginocchio le economie dei Paesi industrializzati, come accadde durante lo shock petrolifero del 1973. Oggi copre il 40% della produzione mondiale e il 78% delle riserve. Negli ultimi anni, tuttavia, l’organizzazione ha vissuto un periodo difficile. Ha perso quote di mercato ed è stata dilaniata dagli attriti tra i Paesi membri. Se dal 2008 al 2013 la produzione mondiale di petrolio è cresciuta di ben 12,7 milioni di barili al giorno (mbg), il 70% di questo incremento è arrivato da Paesi esterni all’Opec, in primis gli Stati Uniti. Con una quota di mercato inferiore rispetto al passato, e il prezzo del barile precipitato a 30 dollari, l’Opec è ora in crisi, non solo ostaggio della tradizionale battaglia tra falchi e colombe, vale a dire di chi vuole tagliare la produzione per far salire i prezzi e chi invece è contrario, ma risucchiata dalla guerra strisciante che vede il mondo arabo sunnita contrapposto a quello sciita. In altre parole l’Iran, potenza del mondo sciita, e la rivale di sempre, l’Arabia Saudita, culla e roccaforte dell’islam sunnita.
Da organizzazione di carattere esclusivamente economico, oggi l’Opec appare vittima del sempre più critico scontro tra Riad e Teheran. I due Paesi si fronteggiano indirettamente in due teatri di guerra, Siria e Yemen. L’esecuzione della condanna a morte, in gennaio a Riad, dell’imam sciita Nimr al-Nimr, e poi l’incendio dell’ambasciata saudita a Teheran, hanno gettato benzina sul fuoco, facendo temere un confronto militare. Non è la prima volta che due membri dell’Opec sono ai ferri corti. Dal 1980 al 1988 l’Iraq di Saddam Hussein fu impegnato in una logorante guerra con l’Iran dell’Ayatollah Khomeini. Eppure il solo luogo dove le autorità dei due Paesi si incontravano erano le sedi dell’Opec. Anche iraniani e sauditi continuano a sedersi allo stesso tavolo. Ma la politica dell’Opec è condizionata dall’aspro confronto tra il blocco sunnita e quello sciita. Peso massimo dell’Opec, Riad ha sempre dettato la linea del Cartello. La sua decisione di mantenere la produzione invariata nei vertici del novembre 2014 e del dicembre 2015 rispondeva all’obiettivo di non perdere quote di mercato. Ma il logico crollo dei prezzi che ne è seguito rifletteva un altro obiettivo: mettere in difficoltà l’industria Usa dello shale oil e il suo storico rivale, l’Iran.
Semplificando, si potrebbe ricostruire all’interno dell’Opec un blocco sunnita, capeggiato dall’Arabia, a cui partecipano Kuwait, Qatar e Emirati Arabi Uniti (Uae). Paesi che temono le mire espansionistiche dell’Iran e che seguono le direttive di Riad. Dall’altra parte l’Iran, a cui si affianca, pur senza troppo entusiasmo, l’Iraq. Nel mezzo una serie di Paesi, come Venezuela, Nigeria, Angola, Libia e Algeria, schiacciati dal confronto tra i due rivali.
Dopo la caduta di Saddam, oggi in Iraq è la maggioranza sciita, che ha estromesso i sunniti dal potere, a comandare. I rapporti con l’Iran si sono rafforzati. Le milizie iraniane combattono in Iraq contro l’Isis.
Quanto contano i due blocchi? Iran ed Iraq possiedono rispettivamente 157 e 150 miliardi di barili di riserve petrolifere (terze e quarte mondiali, dati del 2014). In totale oltre 300 miliardi di barili. Politicamente meno compatto, il fronte arabo-sunnita ha tuttavia un obiettivo comune: mettere in difficoltà l’Iran. L’Arabia Saudita vanta riserve per 267 miliardi di barili, il Kuwait 101, 5 miliardi, gli Uae 97,8, il Qatar, 25, 7. Totale 492 miliardi. Sul fronte della produzione, quella iraniana è risalita a 2,9 mbg ma è destinata a tornare verso i 4. Quella irachena si trova ai massimi storici, a 4,4 mbg. In totale 7,3 mbg contro i 16,3 mbg del blocco guidato da Riad(che produce circa 10 mbg). La popolazione pende invece a favore del blocco sciita. Gli 80 milioni di iraniani e i 36 di iracheni sono più del doppio dei 48,3 milioni del blocco sunnita (32 milioni i sauditi). Precisando di voler ritornare ai suoi livelli produttivi pre-sanzioni, ieri l’Iran, capofila dei falchi, ha appoggiato la proposta russo-saudita di congelare la produzione dei Paesi Opec e di alcuni non Opec. Un punto di incontro con Riad? Forse. Ma le divisioni tra i due blocchi non preludono a nulla di buono.