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 2016  febbraio 18 Giovedì calendario

«Mio padre, Eugenio Carmi, era andato in Svizzera per morire perché non poteva più dipingere»

Voleva decidere lui lui quando andarsene dal mondo. Perciò aveva scelto la morte assistita, Eugenio Carmi, esponente tra i più noti dell’astrattismo italiano, con una passione dichiarata per la scienza. Per lui la morte è arrivata due giorni fa, da sola. Eugenio Carmi aveva 96 anni, li avrebbe compiuti ieri, il giorno scelto per la “dolce morte”. Per questo, quindici giorni fa, chiude lo studio di Milano, la città dove ancora è aperta una sua mostra al Museo del
Novecento, saluta gli amici, avverte i figli che il momento è arrivato. Loro quattro, Francesca, Antonia, Stefano e Valentina, avuti da Kiky, sua moglie, sapevano già. Il padre, tempo fa, aveva mandato a loro e alla sorella Lisetta, un’altra grande artista ma nella fotografia, una lettera. Per spiegare che la sua vita era troppo bella per ridurla a un susseguirsi faticoso di giorni. Perciò, al momento giusto, avrebbe guidato la mano del destino. Non c’è riuscito. In Svizzera, nella clinica dove si era sistemato, in una stanza semplice, confortevole, scarna di oggetti e di mobili, la morte ha scelto da sola quando prenderselo. È successo martedì, un giorno prima del suo addio programmato, perché, conferma la figlia maggiore Francesca: «Lo divertiva l’idea di aprire e chiudere il ciclo del suo tempo nello stesso giorno».
Eugenio Carmi viene al mondo il 17 febbraio del 1920 a Genova, la città dove cresce, che abbandona quando si rifugia in Svizzera per le leggi razziali. Si laurea in chimica, nel dopoguerra è la pittura che lo attira, che lo coinvolge, che gli cambia la vita. A Genova, all’Italsider grande fabbrica siderurgica, si forma il Carmi maestro dell’animazione culturale, poi arrivano i suoi lavori, l’amicizia con Umberto Eco, la scelta di aprire a Genova, a Boccadasse la “Galleria del Deposito” la prima che, per una sua intuizione, mette sul mercato i multipli d’autore. Coinvolge i nomi dell’avanguardia come Lucio Fontana, per un’idea di “arte democratica” che lo affascinava. A cui resterà fedele. Fino all’ultima decisione: la morte dolce, che non ha avuto per un pugno di ore.
Francesca Carmi, sapevate di questa scelta?
«Sì, lo aveva scritto in una lettera molti anni fa: “se non posso più dipingere e fare la mia vita non ha senso andare avanti”».
Come definirebbe la vita di suo padre?
«È stata intensa, bella, con momenti bui, certo, come la fuga nel 1938 per le leggi razziali, poi è arrivata mamma, una donna fantastica, che sapeva come stargli a fianco».
Due settimane fa suo padre vi ha avvertito di quello che stava per fare?
«Ha detto che il momento era arrivato, noi siamo andati a trovarlo in Svizzera, io ero con lui quando se n’è andato via. Avevamo chiacchierato fino a un’ora prima, io lui e Valentina, mia sorella, l’altra, Antonia è tornata dagli Stati Uniti dove abita e poi Stefano».
Il lungo addio di suo padre quando è incominciato?
«So solo che a un certo punto ha chiuso con il mondo. Era fatto così. Ha voluto salutare i suoi amici, ha affidato lo studio a Sara, la sua assistente. In questi ultimi giorni leggeva, discuteva, ma il mondo che era stato il suo lo ha tagliato via. Solo quello, la scienza lo interessava sempre, si era entusiasmato per le onde gravitazionali».
Che malattia aveva?
«Un linfoma, servivano lunghe sedute di chemio, per un po’ è andato avanti, poi ha detto basta».
Lei condivide quella scelta?
«Io avrei fatto come mio padre. Voleva andarsene il giorno del compleanno, per iniziare e chiudere il suo ciclo nello stesso giorno, come un cerchio. Ma credo sia stato comunque lui ad affrettare i tempi: da venerdì sera non si nutriva più. Eppure amava molto il cibo, anche lì in Svizzera mangiava regolarmente, poi quell’ordine: “Non portatemi più niente”».
Un ricordo?
«Ero piccolina, iscritta all’asilo a Genova. Un giorno sono tornata a casa terrorizzata, mi avevano detto che se commettevo peccato mi sarebbe venuta una macchia nera nell’anima. Io non sapevo, non capivo cosa fosse l’anima o il peccato. Era la metà degli anni Cinquanta. Mio padre era seduto a tavola, non ha detto una parola, si è alzato, mi ha preso per mano, mi ha riportato all’asilo e ha urlato: “Non la vedrete mai più, mia figlia”».
Un genitore comunque ingombrante?
«Non è stato un padre facile, aveva la sua arte. Per fortuna c’era mamma che curava i figli, la galleria del Deposito. Noi siamo cresciuti così, tra amici e mio padre che ci raccontava le fiabe del Lupo Geremia, che inventava di volta in volta».
E adesso?
«Prepariamo la festa che ci ha chiesto, con la musica di Yellow Submarine. Sarà a Milano ai primi di marzo».