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 2016  febbraio 18 Giovedì calendario

Ci sarebbe una legge che vieta ai parlamentari di avere incarichi in società pubbliche o private. Nel 2014, invece, li avevano in 138

Che i politici italiani, come sibila spesso qualche maligno, vivano su un altro pianeta, è una bugia. Al contrario, stanno con i piedi ben piantati nella realtà: almeno quella economica. Una ricerca di Openpolis rivela che 138 parlamentari hanno incarichi societari, e di questi ben 52 ne ricoprono più d’uno. I dati si riferiscono al 2014, ragion per cui non sappiamo se mentre questo articolo viene pubblicato, fra i 49 senatori, 83 deputati e 6 membri di governo ci siano ancora 52 amministratori delegati e 45 presidenti, più consiglieri di amministrazione vicepresidenti, liquidatori, amministratori unici… Di sicuro colui che figurava come recordman di poltrone, quel Paolo Vitelli eletto con Scelta civica, non occupa più le ben 23 che Openpolis gli ha attribuito: quantomeno perché dal settembre 2015 si è dimesso dagli incarichi di presidente e amministratore delegato del gruppo Azimut Benetti e anche da parlamentare. Precedeva, nella classifica degli onorevoli, l’avvocato esperto di diritto societario Gregorio Gitti, suo ex collega di schieramento passato al Pd. Erede di una dinastia di cavalli di razza democristiani e genero di Giovanni Bazoli, prima dello sbarco in Parlamento il registro delle imprese lo accreditava di ben 21 incarichi, a cominciare dalla presidenza della Metalcam della famiglia Tassara. Quasi il doppio rispetto agli 11 del democratico Andrea Marcucci, primatista fra i senatori.
Dettaglio non trascurabile, sapere quanti di quei 138 onorevoli siedano ancora oggi su qualche scranno in società di capitali. Non fosse altro perché è ancora vigente una legge, la numero 60 approvata il 15 febbraio del 1953: dove si prescrive che i parlamentari non possono avere incarichi in società pubbliche o private per designazione governativa, né in quelle che ricevono soldi dei contribuenti o gestiscono servizi pubblici, nemmeno come consulenti. E analogo divieto vale per i vertici di banche e finanziarie.
Una lungimiranza notevole quella che il Parlamento mostrò allora con questa legge. Purtroppo, però, regolarmente frustrata: al punto da domandarsi, a tre anni dalle elezioni, quanta parte di quella fotografia scattata da Openpolis sia ancora attuale. Il fatto è che l’applicazione dei divieti non è automatica, ma è demandata all’esame di un’apposita commissione parlamentare. Sono gli stessi deputati e senatori, dunque, a decidere se sono incompatibili o meno. E spesso con un esito scontato: come dimostrano innumerevoli casi. Nel 2009 è così accaduto che la Camera non abbia avuto nulla da dire sulla nomina del deputato Lucio Stanca al posto di amministratore delegato di Expo 2015, società pubblica al 100 per cento. Né la commissione di Montecitorio sollevò obiezioni circa la permanenza di Salvatore Sciascia e Alfredo Messina nei consigli di amministrazione di Fininvest, Mediaset e Mediolanum. Del resto, c’era già stato a sinistra un illustre precedente: la fragorosa assoluzione del senatore Vittorio Cecchi Gori dall’incompatibilità per i suoi incarichi televisivi. E poi i tanti altri onorevoli rimasti aggrappati in cima a società pubbliche, nonostante la legge del 1953. Memorabile la storia di Dario Fruscio, senatore leghista che presiedeva Sviluppo Italia Turismo ed era consigliere dell’Eni. Come pure quella di Claudio Fazzone, contemporaneamente senatore e presidente di Acqualatina, società di gestione delle acque nell’omonima provincia laziale.
Per non parlare delle scappatoie annidate nelle pieghe della legge. Grazie a una di queste il parlamentare già del Pdl Denis Verdini ha potuto fare anche il presidente di una banca: il Credito cooperativo fiorentino. Le norme del 1953 contengono infatti una deroga per le coop, come la sua. Peccato che sessant’anni fa le casse rurali fossero tutt’altra cosa, e che nessuno, in tanto tempo, si fosse mai accorto che ogni differenza con le banche normali era scomparsa. Ma guarda un po ’…