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 2016  febbraio 18 Giovedì calendario

E Vittorio Emanuele sposò Elena. Un romanzo involontario su un regalo di matrimonio

Si può scrivere un «romanzo involontario»? Lucio d’Alessandro, che qualifica come tale Il dono di nozze, da lui pubblicato con Mondadori, ha dimostrato che si può. Aveva da tempo fra le mani le preziose carte conservate presso il Suor Orsola Benincasa, antico Istituto napoletano (oggi Università, di cui egli è rettore), e in quelle carte aveva ritrovato «un centinaio di missive indirizzate dalla regina Margherita» di Savoia, sposa del re e cugino Umberto I, dal quale ebbe Vittorio Emanuele III, successore del padre e re d’Italia dal 1900 al 1946, ad Adelaide del Balzo Pignatelli, principessa di Strongoli, dama di corte di quella regina, e da lei tenuta in pregio. 
In queste lettere d’Alessandro aveva individuato la singolare vicenda del dono, ideato dalla stessa Adelaide, per le nozze di Vittorio Emanuele con Elena, principessa del Montenegro, e gli si era subito affacciata l’idea di narrarla. Non c’era che da seguire le tracce di quelle lettere e congiungerle a quelle emergenti dalle varie altre corrispondenze della Pignatelli in materia; ed ecco che il romanzo si trovava fatto quasi da sé, senza che chi lo ha scritto lo avesse preventivamente voluto. 
«Fatto da sé» è, ovviamente, un modo di dire. d’Alessandro ha avuto un’idea felicissima, per nulla scontata, e non facile a realizzarsi. Un romanzo storico? Si, guardando ai fatti qui narrati rifacendosi a una folta corrispondenza fra i protagonisti, di cui si riporta spesso il testo, sicché si può pure dire che questo è, in forma piuttosto singolare, anche un saggio storico. Ma, se i nomi e le lettere dei protagonisti stavano lì, dinanzi a d’Alessandro, quasi «personaggi in cerca d’autore», occorreva trovarlo, l’autore; e sono stati davvero fortunati: l’hanno trovato accorto e verace narratore, dalla prosa discreta, ma non priva di vivacità e di colore. 
Il matrimonio di Vittorio Emanuele fu un affare di Stato. Che alla sposa montenegrina pensasse la regina Margherita, preoccupata che il figlio tardasse a sposarsi, è certo. A decidere fu, però, la conoscenza personale di Elena che Vittorio Emanuele fece prima a Venezia e poi a San Pietroburgo, dove lei era stata in collegio: una conoscenza tradottasi per il principe italiano nel più classico colpo di fulmine. 
«Nozze con i fichi secchi», si disse allora per indicare il rango del tutto minore della famiglia con cui i Savoia si imparentavano. «Mia cugina la pastora», diceva Elena d’Orléans, sposa di Emanuele Filiberto, cugino di Vittorio Emanuele, per indicare la sposa di quest’ultimo; e un Paese di pastori era, appunto, il Montenegro. L’orgogliosa regina Margherita aveva, però, pensato per il figlio, di piccola (m. 1,54) e non robusta né prestante figura, a una sposa che, per così dire, migliorasse la razza, e tale fu l’alta (m. 1,80), formosa e, certo, bella Elena. 
Per il loro matrimonio la Pignatelli pensò che le dame napoletane potessero regalare un quadro di un pittore famoso come Ciccillo (Francesco Paolo) Michetti, incorniciato da un artigiano bravo come il Burchiello (Alessandro Burchi) e accompagnato da una cobbola (una breve strofa usata nell’antica lirica provenzale) trovata e proposta dal poeta allora più in voga, Gabriele d’Annunzio. Il romanzo è tutto nelle faticate vicende per le quali la principessa dové passare per realizzare al meglio la sua idea, e di come vi riuscì grazie all’aiuto che fin dall’inizio, e poi ininterrottamente, ebbe da un intelligente e fattivo collezionista napoletano, Giovanni Tesorone, suo devoto amico. 
Il matrimonio fu celebrato a Roma il 24 ottobre 1896, in un anno infausto per l’Italia, sconfitta il 1° marzo ad Adua dal negus Menelik e costretta a una pace sfavorevole, e in ansia per la sorte dei 2.000 prigionieri detenuti dal negus. Il 25 il dono fu consegnato ed ebbe grande successo. Il quadro ( L’offerta ) rimase poi caro ad Elena, che lo tenne sempre con sé e lo portò anche nell’esilio seguito all’abdicazione di Vittorio Emanuele III nel 1946, finché dopo la sua morte non è stato più ritrovato. E non è questo il minore paradosso dei casi narrati in questo romanzo involontario, col quale d’Alessandro ha ricostruito una di quelle pagine minori della storia che fanno capire tante cose anche delle sue pagine più solenni.