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 2016  febbraio 17 Mercoledì calendario

A Forlì c’è una mostra titolata a Piero della Francesca con sole tre opere di Piero della Francesca (su 190)

La simpatica invenzione lessicale di Renzi – gufi – di recente assegnata a coloro che si limitano ad annotare, non solo in Rete, ma su carta – qualcosa che non funzioni o che potrebbe rappresentare un insidioso inganno – fa rientrare nella categoria anche chi si occupa della chiacchierata, ma nella realtà lateralissima, “cultura italiana”, quella che si blatera avrebbe dovuto o ancora dovrebbe (ma poi non succede mai) salvare il nostro magnifico – e stracolmo di bellezze (!) – Paese.
Talvolta, anche per gli ottimisti (poi costretti a “ingufalirsi”), nulla è pianificato, anzi: come ogni anno si aspetta con speranza la “grande mostra”: l’anno passato si trattava dell’impeccabile e completa rassegna su Giovanni Boldini, quest’anno si attendeva – con trepidazione – l’annunciato e immenso Piero della Francesca, sempre a Forlì, presso il bel Complesso dei Musei di San Domenico.
Si trattava di un’ingenuità, o forse di un miraggio: Piero della Francesca (Borgo Sansepolcro, 1416-1492), tra i pittori più emblematici, in seguito svalutato e rivalutato più volte, del Rinascimento Italiano, produsse poche tavole e dipinti – meno ancora di Caravaggio – molti risucchiati dai musei esteri, e per conoscerlo la prima cosa da fare è recarsi nei luoghi del suo fare, quelli dei suoi strepitosi affreschi: ad Arezzo nella Cappella Maggiore di San Francesco dove affrescò le Storie della Vera Croce (1452), a Rimini, nel Tempio Malatestiano (1451) e a Monterchi, nella Cappella del Cimitero per la folgorante Madonna del Parto (1460).
Come accadde per Caravaggio alle Scuderie romane qualche anno fa, la possibilità di radunarli, almeno sulla carta, pareva fattibile seppur ardua, visto che la mostra si intitola Piero della Francesca. Dipinti emblematici si trovano a Brera, agli Uffizi e a Urbino (anche senza fonti non è difficile capire che nessuno, neanche italiano, ha voluto prestarli). Invece. In tutto, su circa 190 opere, quelle di Piero sono tre (il più importante è una parte del Polittico della Misericordia, 1448, in prestito da Sansepolcro), più un quarto pezzo ancora non del tutto attribuito.
Il sottotitolo della mostra, magari in calcio d’angolo, avrebbe forse dovuto sostituire il titolo, poichè assai più aderente alla realtà: Indagine su un mito. Da qui comincia il vero viaggio di una mostra molto interessante e da vedere, ma tutta costruita sugli infiniti rimandi che la sua pittura ha scaturito nei secoli, con salti epocali incrociati, similitudini e particolari essenziali, copie ed epigoni, ma priva quasi totalmente dell’oggetto da cui l’indagine proviene.
Il primo girone, quello dei coetanei, riguarda tele meravigliose di Beato Angelico, Paolo Uccello, Filippo Lippi e Andrea del Castagno. Poi i successivi Francesco del Cossa, Luca Signorelli, Melozzo da Forlì e Giovanni Bellini.
Poi il lungo viaggio nella pittura si spinge oltre, riemergendo dopo secoli d’oblio, e torna con i Macchiaioli e la riscoperta da parte di alcuni inglesi. Arriva anche al Novecento, con la staticità di Seraut e l’azzardo di Balthus e Hopper. Un intero piano è dedicato agli italiani del Novecento, i quali erano indubbiamente impostati su un severo registro architettonico e simbolico, ma sta in ogni visitatore verificare se l’indagine porti a risultati certi.
Carrà, Casorati, Morandi, Donghi (tre pezzi favolosi), De Chirico, Campigli, Funi, Ferrazzi. La mostra c’è, e ci sono decine di tele di valore e bellezza infinita. Resta, con pazienza, da interpretare i segni che le congiungono verso il grande, misterioso e magnetico – forse perduto – ma senza dubbio assente: Piero della Francesca.