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 2016  febbraio 17 Mercoledì calendario

Imparare dalle arvicole della prateria cos’è l’altruismo

Soffriamo nel vedere un amico affranto e la prima reazione è quella di consolarlo e lanciargli le braccia alla collo. Tutto ciò sembra tipicamente umano e potrà quindi sorprendere che anche una specie di piccoli roditori del Nord America, come le arvicole della prateria, facciano lo stesso con amici e parenti stressati (con un abbraccio nel loro stile). L’hanno mostrato per la prima volta i ricercatori della Emory University di Atlanta che dalle pagine di «Science» svelano anche che nessun tipo di sostegno viene invece fornito agli individui con i quali non c’è familiarità.
Se due animali che occupano una stessa gabbietta vengono momentaneamente separati, e l’individuo allontanato viene esposto a stimoli stressanti, al momento del ricongiungimento il compagno si avvicina e si dedica alla pulizia del pelo del partner (il «grooming») molto più a lungo rispetto a quando nulla di stressante avviene durante l’allontanamento. 
«L’empatia è essere sensibili allo stato emotivo degli altri e, ai livelli superiori, capire quello stato», spiega a «Tuttoscienze» uno degli autori dello studio, il celebre primatologo Frans De Waal. Più complessa è invece la consolazione, un fenomeno osservato fin qui solo in alcune specie sociali come i delfini, gli elefanti e, soprattutto, i nostri cugini più prossimi. Gli scimpanzé vi ricorrono spesso per appianare le contese, favorire la riconciliazione tra individui, alleviando le tensioni del conflitto, per ripristinare l’equilibrio sociale.
Misurando gli ormoni nel sangue dei roditori, i ricercatori hanno trovato che, esattamente come accade a noi umani, l’ansia e la paura si trasmettono ai compagni e che il loro stress aumenta quando l’attività di consolazione è impedita. «Non sappiamo come il partner rilevi lo stress: può essere attraverso una via chimica, ma gli studi sui topi suggeriscono che può anche essere visiva – ci dice Frans De Waal -. Noi abbiamo scoperto nell’osservatore lo stesso livello di stress (determinato dal cortisolo) e quindi c’è contagio emotivo, che è poi quello che scatena l’empatia. E così, sì, le arvicole reagiscono allo stress altrui stressandosi loro stesse. Ma poi, invece di agire sul proprio stress, esercitano il “grooming” al partner e presentano quindi una risposta diretta verso l’altro che è tipica della consolazione». La selettività di questa risposta consolatoria, diretta solo agli amici, dimostra che non si tratta di una semplice reazione a una situazione avversa.
Presente anche nei roditori, la consolazione probabilmente non richiede abilità cognitive avanzate, ma si basa su capacità ancestrali e condivise nel mondo animale. «La percezione dello stato di stress altrui spinge il roditore ad avvicinarsi e agire per ripristinare il legame con l’altro», spiega Stefano Parmigiani, direttore del Laboratorio di Etologia e Psicobiologia dell’Università di Parma, che puntualizza: «Il termine consolazione fa generalmente riferimento all’esistenza di un cervello in grado di elaborare l’intenzionalità, così come la conosciamo nei primati e negli uomini». 
Le arvicole della prateria sono animali sociali, con legami di coppia stretti e duraturi. Lo studio mostra che all’origine del comportamento di consolazione c’è l’ossitocina, un ormone che anche negli esseri umani è legato ai processi di attaccamento, meccanismo biologico ancestrale delle cure materne. E infatti, bloccandone i recettori in alcune aree cerebrali omologhe o identiche a quelle che anche negli umani sono coinvolte nel fenomeno, i roditori, pur continuando a sentire la paura degli altri, cessano i comportamenti consolatori. «Dopotutto, la neuroendocrinologia è conservativa e gli ormoni vengono cooptati per svolgere altre funzioni – continua Parmigiani -. Non stupisce quindi che il substrato neurobiologico molecolare della consolazione sia lo stesso nelle diverse specie».
Esiste però un’altra arvicola, quella della Pennsylvania, aggressiva e territoriale, che non conosce la consolazione. A differenziare questa specie dall’altra è l’essersi evoluta in un ambiente che richiede una maggiore competizione per le risorse. Nelle società umane, invece, biologia e cultura si intrecciano: conta di più l’ossitocina o un’equa redistribuzione dei beni? Fino a che punto possiamo guidare le nostre basi neurofisiologiche? «Il contesto conta a tal punto che, in alcune situazioni, non percepiamo i segnali fisiologici dell’empatia. Le condizioni sociali sono estremamente importanti nel determinare i livelli di aggressività e cooperazione tra conspecifici – ammette Parmigiani -. Anche la numerosità del gruppo, influenzandone la coesione interna, ha effetti sull’empatia: così, vedere un fratello in ognuno degli oltre 7 miliardi di umani, sembra un’utopia». Insomma, a seconda del contesto sociale, compassione e pietas possono lasciare il posto a individui più simili alle arvicole della Pennsylvania che a quelle della prateria.