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 2016  febbraio 17 Mercoledì calendario

In morte di Eugenio Carmi

Il titolo della mostra in corso al Museo del Novecento di Milano ben racconta lo spirito di modernità che animava Eugenio Carmi, uno dei «grandi» dell’astrattismo italiano, nonché l’ultimo della generazione genovese di Lele Luzzati e Flavio Costantini, scomparso ieri alla vigilia del suo novantaseiesimo compleanno, in una clinica di Lugano. E ugenio Carmi. Appunti sul nostro tempo. Opere storiche 1957-1963 recita il titolo dell’esposizione curata da Davide Colombo (prorogata, visto il successo, dal 28 febbraio al 13 marzo): quasi una formula per sintetizzare in poche parole l’intero percorso creativo di Carmi. Che dopo aver studiato pittura con Felice Casorati e scultura con Guido Galletti aveva deciso di non limitarsi alla tela o ai materiali più classici, ma di sconfinare in un mondo (come quello delle «latte litografate») che utilizzava i materiali della fabbrica per farne opere d’arte(il ferro, l’acciaio), per esplorare le possibilità dell’astrattismo e dell’informale.
Nato a Genova nel 1920, Eugenio Carmi è d’altra parte sempre stato indissolubilmente connesso anche fisicamente con una certa idea di contemporaneità. E con una visione del nostro tempo influenzata dal mondo industriale, di quello genovese in particolare. Quello stesso mondo di cui Carmi (la sua prima monografica a Firenze nel 1938 alla Galleria Numero era stata presentata da Gillo Dorfles) aveva fatto parte dal 1958 al 1965 come responsabile immagine dell’Italsider, ma anche in virtù di una laurea in chimica conseguita al Politecnico di Zurigo, dove si era trasferito nel 1938 per sfuggire alle leggi razziali.
Un’idea di modernità che spazia dalla ricerca sulla materia dei primi anni Cinquanta fino alle ultime opere incentrate sulle leggi matematiche della natura o alla copertina (una sorta di arcobaleno industriale) che Carmi aveva realizzato per «la Lettura» del «Corriere della Sera» (la numero 168 del 15 febbraio 2015).
Di una modernità assai industriale parlano così i suoi «segnali immaginari elettrici» degli anni Settanta e la «struttura policiclica a controllo elettronico», la Spce con cui aveva partecipato alla Biennale di Venezia del 1966. La sua particolare idea di arte lo aveva anche spinto a invitare, durante gli anni passati all’Italsider, personaggi come Victor Vaserely a lavorare sul tema della fabbrica. Ma se la sua dimensione era diventata con il tempo sempre più internazionale, strettissimo era rimasto il legame con Genova (il suo primo studio era stato a Boccadasse, nel borgo dei pescatori). Da questo amore erano nati nel 1945 gli scorci della città colpita della guerra che aveva realizzato con la moglie Kiky Vices Vinci (con cui aveva condiviso la passione per l’arte ma anche per la letteratura, il cinema, il teatro). Mentre proprio a Genova, nel 1963, aveva fondato con Flavio Costantini e Lele Luzzati (suoi grandi amici) la Galleria del Deposito: una cooperativa di artisti,«senza scopo di lucro, che doveva vivere con l’autofinanziamento». Ennesimo tentativo (come Stripsody, progetto musicale sulle «sonorità del fumetto» della fine degli anni Ottanta realizzato con la cantante Cathy Barberian e con i testi di Umberto Eco e le illustrazioni di Carmi) di rendere l’arte sempre più moderna.

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Aleesandro Cassinis per la Stampa
Eugenio Carmi è morto ieri pomeriggio nella stanza 412 di una clinica svizzera, dietro una porta con un grande fiore di carta colorato di azzurro. Oggi avrebbe compiuto 96 anni. Aveva scelto il giorno del suo compleanno per chiudere una vita meravigliosa che lo aveva stancato. Questa mattina i volontari di un’associazione per l’eutanasia gli avrebbero messo un bicchiere sul comodino e lui l’avrebbe bevuto. Li ha anticipati di poche ore: da qualche giorno si rifiutava di mangiare, la morte è arrivata da sola. Imprevedibile fino alla fine, era uno dei più grandi artisti italiani del Novecento.

Il 2 febbraio avevo sentito al telefono la sua voce forte e allegra come al solito. «Sono a Genova, ma parto per Lugano. Vado in clinica, resto una settimana, forse due, poi me ne vado da questo mondo. Vieni a trovarmi». Sapevo che aveva chiuso lo studio di Milano e stava salutando gli amici, ma ancora non avevo capito. Il 6 febbraio mi arriva una mail: «Non ti voglio obbligare a questo viaggio, ma sappi che prima di lasciare questa vita ti abbraccerei con tutto l’affetto».
L’ultima volta
L’autostrada per Lugano è lucida sotto una pioggia ostinata. Pioveva anche a Genova quando l’avevo visto arrivare l’ultima volta con addosso i colori del suo studio di Porta Romana e il cappello da Gavroche. Portava sulle spalle uno zainetto pesantissimo ed era immune alla pioggia, alla distanza e alla fatica dell’età come un folletto dei boschi. Pensavo che fosse immortale. Fu allora che mi parlò della sua idea di bellezza e mi citò una frase di Konrad Wachsmann, l’architetto: «Ogni progetto giusto è anche bello». Lo avevo conosciuto nel 2008, quando mi chiamò per denunciare la scomparsa di un suo quadro, «Appunti sul nostro tempo», esposto più di 50 anni fa a Mosca e poi inghiottito nel gorgo dell’Italsider, l’azienda illuminata da Gian Lupo Osti dove aveva lavorato come responsabile dell’immagine dal 1958 al ’65. «Quel quadro rappresenta un rimpianto - mi disse allora - Rimpiango gli anni della grande speranza, quando si poteva contare su un altro tipo di solidarietà e anche noi a Genova credevamo, come gli artisti del Bauhaus, di poter cambiare in meglio il mondo con il nostro lavoro. Oggi non lo dipingerei più».
Quasi un secolo
È il 9 febbraio. Dietro la porta con il fiore azzurro, Carmi è seduto su un divanetto in quella che sembra una camera d’albergo. Ha una camicia a quadri, un golf e un cardigan di lana, una coperta sulle ginocchia. Accanto a lui Kiky sorride da una foto, la moglie bellissima e rimpianta. «Vedi, ho vissuto quasi un secolo e la vita mi ha dato tutto quello che volevo, ma ora sono stanco. Non ce la faccio più a dipingere, senza arte non ha senso andare avanti». Il fabbricante di immagini, l’uomo che trasmetteva agli amici un’energia anarchica e dolce, il pittore che secondo Umberto Eco diventava sempre più giovane a ogni nuovo quadro ora si sente «come quelli che vanno in pensione e si lasciano andare. Per un artista la pensione non esiste». Il tono è limpido come se dovesse spiegare qualcosa di molto semplice a un bambino. Quattro o cinque mesi fa ha finito i suoi ultimi quadri, poi la salute è peggiorata, ha fatto molta chemio e un giorno ha detto: potessi bere la cicuta.

Nasce così l’idea di quest’ultimo viaggio, la dolce morte che l’Italia nega ai suoi cittadini, una fine consapevole e dignitosa per chi ha tanto amato la vita. «La mia è una decisione molto serena. E i miei figli hanno capito perfettamente la situazione: tutti e quattro rispettano la mia scelta». Lo dice molte volte chiamandoli per nome, in ordine di età: Francesca, Antonia, Stefano e Valentina. Non vuole funerali, ma una festa. «Suonate per me Yellow Submarine».
Il grande mistero
Gli chiedo se ha paura, se pensa che ci sia una vita oltre la morte, se riesce a immaginarla. Sorride e allarga le braccia. «La morte fa parte di un mistero, il mistero dell’universo. Non so se esiste un aldilà. Anche se sono laico, prego e penso a questo immenso mistero. Hai letto delle onde gravitazionali? Interessantissimo. Lui, Einstein, è stato il più grande scienziato del nostro tempo». La scienza è sempre stata il suo filo conduttore. «A parte i vantaggi per la medicina, della
tecnologia posso dire che sta cambiando il mondo». In meglio o in peggio? «Non so, lo sta cambiando più di quanto crediamo».
Penso ai titoli dei suoi quadri: «Come sarebbe bello il mondo», «Anche la geometria sogna». Mi sembra strano che si abbia ancora voglia di sognare dopo aver scelto il luogo, il modo e il giorno per morire. Eppure Carmi mi parla del futuro. «Bisogna fare qualcosa per ridare fiducia. Sono impressionato dai giovani senza lavoro. Molti vanno all’estero e riescono a trovare posti anche interessanti, ma non tornano più. L’Italia non offre molto. Bisognerebbe rimescolare tutto e rimettere a posto la società e la politica. Ci vorrebbe una ripresa morale. Ho l’impressione che la massa non ritenga nemmeno importante esprimere le proprie idee».
Alle 6 gli portano la cena. Lo guardo mangiare tranquillo, assorto nei pensieri e nel silenzio. Fuori continua a piovere sul lago livido e gonfio. «Forse l’universo è un cerchio misterioso». Anche il tavolino obbedisce alla divina proporzione, la sezione aurea che rende bello il mondo.
Una volta gli chiesero che cos’è la creatività e lui rispose: «Invece di uccidere il bisonte, dipingerlo». Pensava al pittore della grotta di Lascaux, che diciassettemila anni fa inseguì la bellezza e le risparmiò la vita, rendendola immortale. «Quella fu la prima testimonianza dell’arte nel condominio», scherza. Da Genova gli amministratori condominiali gli hanno chiesto un progetto per riportare l’arte negli spazi comuni delle abitazioni. «Ma non credo che questa idea, molto bella, possa avere un futuro: i condominii sono i luoghi dove si litiga di più al mondo».

Leggerissimo
Il tempo scorre lentissimo, c’è ancora più di una settimana per salutare gli amici e dare le ultime istruzioni alla sua silenziosa assistente, Sara Villa, che a Milano penserà ancora per un anno al suo studio. Sette giorni di routine da vecchia pensione svizzera, con un appuntamento finale che a me fa gelare il sangue e a lui mette una strana allegria, come se sapesse che la dolce morte sarebbe arrivata da sola. Lo aiuto ad alzarsi per tornare sul divano. E’ leggerissimo. «Scrivi tutto quello che vuoi, anche della mia decisione di lasciare questa vita». Mi guarda con affetto, come se volesse consolarmi. Ogni progetto giusto è bello. Poi lo sento ridere: «L’unica cosa che mi dispiace è non poter leggere il tuo articolo».