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 2016  febbraio 17 Mercoledì calendario

Arabia Saudita e Russia congelano la produzione di petrolio, l’Iran invece no

Stavolta non si tratta solo di voci. L’Arabia Saudita e la Russia hanno davvero trovato un accordo, anche se non per tagliare, ma solo per congelare la produzione di petrolio sui livelli (altissimi) di gennaio e solo con l’ormai nota condizione vincolante: ossia, che altri grandi fornitori di greggio si impegnino a fare lo stesso.
Le adesioni non mancano, ma è evidente che senza l’Iran l’intesa è priva di significato e che convincere Teheran – appena sollevata dalle sanzioni internazionali e intenta a recuperare le quote di mercato perdute – sarà tutt’altro che facile. Inoltre, anche nel caso remoto in cui tutti smettessero di aumentare la produzione, è probabile che non basterebbe a risolvere i problemi sul mercato del petrolio: secondo stime dell’Agenzia internazionale dell’energia c’è tuttora un eccesso di offerta di 2 milioni di barili al giorno e le scorte petrolifere nei Paesi Ocse hanno già superato il livello record di 3 miliardi di barili.
Il ministro saudita Ali Al Naimi ha suggerito che questo «è solo l’inizio di un processo che proseguirà nei prossimi mesi, in cui si deciderà se fare altri passi per stabilizzare il mercato» – tradotto:?un taglio di produzione – ma il mercato non ha abboccato e per una volta ha regito in modo razionale. Il petrolio, che era arrivato a guadagnare quasi il 7% in mattinata, nel corso della seduta ha prima rallentato la corsa e poi invertito la rotta, per chiudere in ribasso:?addirittura del 3,6% nel caso del Brent, a 32,18 $/barile, dell’1,4% nel caso del Wti (a 29,04 $).
L’intesa di ieri – finalmente non un’indiscrezione, ma una notizia annunciata con tutti i crismi dell’ufficialità – non è del tutto priva di significato: erano quindici anni che l’Opec non trovava alcuna forma di collaborazione con i produttori non Opec, salvo l’adesione a qualche blanda dichiarazione di principio. Inoltre Ryadh e Mosca hanno già trovato alleati importanti: con loro ci sono il Venezuela – che da mesi cercava di promuovere un accordo a difesa del prezzo del barile – e il Qatar, che ha ospitato a Doha i colloqui tra i ministri del Petrolio dei quattro Paesi.
Con un comunicato ufficiale anche il Kuwait, tradizionalmente schierato coi sauditi, ha dato la sua benedizione all’accordo, «purché ci sia un impegno dai principali produttori Opec e non Opec».
Alle stesse condizioni, hanno fatto sapere fonti governative, ci starebbe pure l’Iraq, che in gennaio ha spinto la sua produzione al record di 4,4 milioni di barili al giorno, dai 2,4 mbg del 2010. Addirittura Baghdad sarebbe pronta a tagliare l’output, aveva del resto affermato giorni fa il ministro del Petrolio Adel Abdul Mahdi.
Resta il problema dell’Iran, che dopo anni di sanzioni proprio questa settimana ha ripreso a esportare greggio in Europa. Il ministro Bijan Zanganeh ha ribadito ancora ieri, attraverso l’agenzia locale Shana, che Teheran «non rinuncerà alla sua quota di mercato» e che un’eventuale collaborazione a tagli o anche solo congelamenti dell’output arriverà solo quando sarà tornata ai livelli pre-sanzioni: in pratica un milione di barili al giorno in più rispetto agli attuali 2,9 mbg.
L’ennesimo, difficilissimo tentativo di mediazione sarà fatto oggi dal ministro venezuelano Eulogio Del Pino, che dopo aver rivendicato il successo delle trattative di Doha ha annunciato che si sposterà a Teheran per incontrare proprio Zanganeh e l’iracheno Mahdi.
Qualche reazione, nel frattempo, è arrivata anche dall’esterno dell’Opec. Dalla Russia, che in passato ha più volte tradito gli impegni presi con l’Opec, ha parlato il vicepremier Arkady Dvorkovich, sottolineando che per Mosca l’impegno a congelare l’output «non è stato molto difficile assumere», in quanto è prevedibile che la produzione non crescerà più dopo aver raggiunto in gennaio il record postsovietico di 10,88 mbg.
Si è invece tirato indietro l’Azerbaijan: «Non siamo un grande produttore, dunque non cambieremmo nulla tagliando o congelando l’output», ha detto alla Bloomberg il viceministro dell’Energia Natiq Abbasov. L’agenzia ha interpellato anche la Norvegia, ottenendo da un portavoce soltanto la conferma che Oslo ha «preso atto» degli accordi di ieri in Qatar.
Sissi Bellomo

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Lunedì 17 febbraio 2016. Per la prima volta negli ultimi tre anni, dall’Iran parte una spedizione di petrolio destinato all’Unione Europea. Martedì 17 febbraio. Doha. Il ministro saudita del petrolio, Ali al-Naimi, e il suo omologo russo, Alexander Novak, si incontrano, insieme al ministro venezuelano dell’Energia e quello del Qatar, per cercare di trovare un soluzione al crollo delle quotazioni petrolifere. L’incontro termina con una decisione inusuale: un congelamento della produzione ai livelli di gennaio. Obiettivo: stabilizzare i mercati ed evitare che il prezzo del barile perda ancora terreno.
I due fatti stridono, appaiono in contraddizione. Se alla fine i sauditi hanno deciso di fare qualcosa – si tratta peraltro di un’iniziativa piuttosto debole – gli iraniani, che rivendicano il legittimo diritto a ritornare ai loro livelli pre-sanzioni, stanno remando contro. La prima petroliera, presa in carico dalla francese Total, è salpata ieri dalle coste iraniane con un carico di due milioni di barili di greggio. Un altro carico di un milione di barili, acquistato dalla spagnola Cepsa, dovrebbe essere partito ieri. Un’altra petroliera, affittata dal braccio commerciale della major russa Lukoil, è approdata nel week-end al terminale iraniano di Khaarg Island.
Strozzato per tre anni da un embargo petrolifero (americano ma anche europeo), che nei momenti peggiori ha fatto crollare le esportazioni da 2,5 due milioni di barili al giorno (mbg) a 700mila barili, l’Iran non vuole perdere tempo. Euforica per la fine delle sanzioni, Teheran spera di aumentare l’export di un mbg entro un anno. Petrolio che si aggiungerà ai 2 mbg di eccesso produttivo. L’Iran non è disposto ad adeguarsi al congelamento e «non rinuncerà alla propria quota di mercato», ha precisato il ministro del petrolio Bijan Zanganeh annunciando colloqui con Iraq e Venezuela oggi a Teheran.
Che i sauditi facciano una cosa, e gli iraniani un’altra, non è una novità. Soprattutto di questi tempi in cui la potenza del mondo sunnita e quella del mondo sciita si fronteggiare su più teatri di guerra, dalla Siria allo Yemen. Riad e Teheran sono davvero ai ferri corti. In un vertice che passerà alla storia, nel novembre 2014, Riad aveva prevalso con la sua linea: mantenere la produzione invariata anziché tagliarla per sostenere i prezzi. In verità la decisone si traduceva in un “liberi tutti”. La ragione ufficiale era conservare la quota di mercato.?Quella meno sbandierata: dichiarare guerra all’industria americana dello shale oil, un’estrazione costosa che in media richiede un prezzo del barile tra i 45 e i 55 dollari. Terzo obiettivo: mettere in gravi difficoltà i suoi storici rivali, primo fra tutti l’Iran.
Nonostante i prezzi fossero scesi ancora, la linea saudita ha prevalso anche nell’ultimo vertice Opec,in dicembre. Pur mettendo in gravi difficoltà l’industria americana dello shale oil, Riad non è riuscita ad infliggerle il colpo fatale che desiderava. Quanto all’Iran, Teheran ha sofferto molto, ma sembra aver retto ed è ora determinata a riprendersi. Il greggio a 30-40 dollari ha provocato gravi danni alle economie di gran parte dei paesi esportatori di greggio. Abituata a generosi surplus di bilancio, nel 2015 anche Riad ha visto le sue entrare crollare ed ha dovuto affrontare un deficit di bilancio che sfiora i 100 miliardi di dollari. Certo, dispone di riserve valutarie e asset per circa 700 miliardi di dollari. Può quindi convivere con gli attuali valori ancora per diversi anni. Non però per la maggior parte dei produttori di greggio. Per loro la situazione è divenuta insostenibile.
Roberto Bongiorni