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 2016  febbraio 17 Mercoledì calendario

La Brexit farebbe comodo a Cameron più che agli inglesi

Se tutto procederà come previsto, venerdì sera David Cameron confermerà la voce che da giorni fissa nel 23 giugno il nuovo D-Day del Regno Unito. Più che uno sbarco sulle coste dell’Europa continentale rischia di essere una ritirata, l’addio all’Ue che quel giorno della prossima estate sarà sottoposto allo scrutinio dei cittadini britannici. L’annuncio giungerà dopo la riunione straordinaria del governo chiamato a valutare l’esito del summit di domani e dopodomani. Nel momento stesso in cui il capo del governo di Sua Maestà svelerà pubblicamente la data della consultazione popolare cadranno le restrizioni che hanno imposto ai ministri di non esprimersi sul destino di Londra. In altre parole, come promesso, i rappresentanti del governo saranno lasciati liberi di battersi pro o contro l’intesa che Cameron avrà raggiunto e, quindi, pro o contro la permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. I maggiorenti conservatori sono con il premier, nonostante resti un margine di incertezza perché a determinare il posizionamento non sarà il bene comune, ma – anche – il personale vantaggio politico in vista della successione a Cameron, deciso a lasciare la guida del partito prima delle prossime votazioni.
Questo è lo stato dell’arte guardando Brexit dall’interno dei conservatori. Una prospettiva irrinunciabile perché a questo imbarazzante showdown anglo-europeo si è giunti solo ed esclusivamente per le esigenze politiche di un Tory party spaccato fra euroscettici ed euroagnostici. Ma che le cose siano destinate ad andare, davvero, come tracciato qui sopra non è affatto scontato. L’agenda immaginata implica, infatti, che tutto, a Bruxelles, s’incanali nel modo migliore: che, cioè, sui due capitoli più delicati – benefits ai lavoratori Ue occupati a Londra e governance economica dell’Ue – si trovi l’intesa. La bozza firmata dal presidente Donald Tusk e nei giorni scorsi sventolata da Cameron si regge su una sintassi da brivido, costretta com’è stata ad accomodare tutto e il contrario di tutto.
Continua pagina 15 Leonardo Maisano Continua da pagina 1 Sui temi previdenziali è, a nostro avviso, immaginabile il raggiungimento di un ragionevole compromesso, nonostante le resistenze polacche. Quantomeno perché i numeri non sono tali da far saltare il banco di nessuno, certamente non quello di Londra.
Sfogliare la margherita sulla governance economica sarà più complesso. David Cameron non ha ancora saputo tranquillizzare il presidente francese François Hollande giustamente preoccupato per i varchi che si potrebbero aprire favore del Regno Unito nel mercato interno sotto la voce servizi finanziari. Il temuto (da Londra) svantaggio competitivo dei Paesi non euro potrebbe trasformarsi in un vantaggio, lasciando a Downing street anche il – modesto, ma non irrilevante – potere di interferire nel cammino di maggiore coesione che dovrà essere scelto dall’eurozona. I timori per un eventuale “single rulebook” a più livelli per le banche Ue sono stati già espressi dal presidente dell’European banking authority Andrea Enria, quelli per il “wording” della bozza Tusk avvolto nelle nebbie del compromesso hanno trovato voce nel presidente della Bce Mario Draghi.
Uscire dall’eterno equivoco del rapporto Ue-Uk è la vera mission del summit di giovedì e venerdi. Uscirne senza condannare Londra all’esilio europeo e senza condannare il resto dell’Unione alle sabbie mobili dell’incertezza britannica è l’impresa che il mondo si attende. Possibile certo, ma non affatto scontata.