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 2016  febbraio 17 Mercoledì calendario

La storia di Gianni, da tre anni senza lavoro perché denunciò i colleghi che rubavano. Ma ora la polizia gli dà ragione

«Sono senza lavoro. Senza casa, perché non avevo più soldi nemmeno per pagare l’affitto. E senza famiglia, senza mia moglie e mio figlio. Ma non ho rubato mai neanche un’arancia, io». Questa è una delle assurde vittime di questo nostro strano, incredibile Paese, a modo suo un piccolo eroe della sfortuna e dell’ingiustizia. Ha 35 anni e un’aria da navicella sbandata nella burrasca del mare («mi trovo in una storia più grossa di me, e non so cosa fare, mi capisca»).
Da tre è senza lavoro, licenziato dalla Cooperativa che si occupava della mensa all’Ospedale San Matteo di Pavia, e adesso che l’inchiesta degli uomini della squadra Mobile gli ha dato ragione, sembra quasi più spaventato di prima: 13 arresti domiciliari per peculato e furto aggravato, 48 indagati e 222 episodi di ruberie filmate dalle telecamere. Lui l’aveva detto. Solo che era stata licenziato. Gli parliamo davanti al suo avvocato, Pierluigi Vittadini, che ha preso a cuore la sua storia il giorno che l’avevano mandato a casa, senza lavoro. «All’inizio pensavo anch’io che parlasse per rabbia quando diceva che lì aveva visto un mucchio di gente che se ne andava via portandosi a casa il cibo per gli ammalati. Invece, era tutto vero».

L’inizio 
La sua storia comincia proprio tre anni fa. Lo chiamiamo Gianni, per garantirgli l’anonimato. «Ero addetto alla pulizia della mensa. Siamo nel 2013. Alla chiusura della mensa, quelli che lavoravano in cucina avevano l’abitudine di mettersi a mangiare nelle tavolate con il cibo che era avanzato. No, questo non credo che sia un reato. Anche perché molto di quel cibo rischia di essere buttato via, giusto? Il reato lo facevano quelli che si portavano a casa la roba, e io ne vedevo ogni tanto qualcuno e la cosa non è che mi andasse molto giù e l’avevo fatto pure presente. Sta di fatto che una sera, quando avevo appena pulito la mensa, mi è partito l’embolo con tutti quelli che gozzovigliavano tranquillamente risporcando di nuovo. E glielo dico, un po’ in malo modo, è vero, ma mi toccava ricominciare dall’inizio il mio lavoro, non potevano fare attenzione? Ne è venuta fuori una brutta lite, e io ho minacciato qualcuno di loro. C’è da dire che quelli mi trattavano sempre male, non era la prima volta: io ero un corpo estraneo. Comunque, pensavo che la cosa fosse finita lì. E invece mi chiamano e mi licenziano». 

I sindacati
Lui ci rimane di sasso. La prima cosa che fa è ovviamente è quella di andare dai sindacati, per farsi proteggere: «Ma i sindacati mi dicono di accettare il licenziamento. Mi dicono che non c’è niente da fare. Li ho insultati davanti a un mucchio di testimoni. Ma i testimoni sono loro, dico io. Non importa: c’è la tua versione contro la loro». Come se non bastasse, assieme al licenziamento, gli hanno fatto pure una querela. Quello è stato il loro errore. Anche se dopo un po’ il capo reparto va dal suo avvocato: «Viene da me», racconta Vittadini, «e mi dice, guardi, capiamo la situazione del suo cliente e ritiriamo la querela. Il licenziamento no, quello resta». 
Solo che è il licenziamento quello che distrugge Gianni. Non ha più i soldi per pagare l’affitto e dopo un po’ riceve lo sfratto. È senza casa. «Mia moglie se n’era andata con mio figlio. Non potevo più mantenere nessuno. Non dormivo la notte, ero disperato. Andavo in giro sempre da solo, non sapevo neanche cosa fare della mia vita». Intanto, viene chiamato dalla polizia per la querela: «A me m’hanno licenziato per una lite, e a quelli che rubano? Potevo farlo anch’io, ma non l’ho mai voluto fare. Lì ne fanno di tutti i colori». Partono le indagini. Tre anni di filmati. Furti, ricettazione? «Questo non lo voglio dire. Ci pensa la polizia. Ma lo facevano persino alla luce del sole. C’era uno di questi che aveva la moglie con un locale e metteva la roba che si portava via pure su Facebook». Ora Gianni vive in una comunità. «È un’amica che mi ha trovato questo posto. Non avevo dove sbattere la testa. Lì ho un riparo». Sta ancora male, non è finita. Ma adesso cosa si aspetta?, gli chiediamo. «Giustizia. Solo quella. Giustizia con la G maiuscola. Quella che non ho avuto io».