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 2016  febbraio 17 Mercoledì calendario

I superstiti del Bataclan ricominciano dall’Olympia. Ieri, gli Eagles of Death Metal sono tornati a cantare per combattere il dolore e la paura

Era solo rock&roll, ma adesso non lo è più. La signora Sophia Parra avanza con le stampelle sul tappeto rosso del più importante teatro di Parigi, in mezzo alle foto di Charles Trenet.
Un amico la sorregge per il braccio, mentre lei sta piangendo. 
«Non so se questa sera ho fatto la scelta giusta – dice – ero molto tormentata dai dubbi e lo sono ancora. Ammetto di essere spaventata».
«Al Bataclan mi hanno sparato alla schiena, sono stata ricoverata quaranta giorni in ospedale, ma alla fine ho deciso di essere qui perché dobbiamo vincere la guerra». 
Questo sarebbe un concerto di una band californiana. O forse è un esorcismo. Di sicuro è il modo con cui Parigi rivendica il diritto alla vita. Gli Eagles of Death Metal tornano a suonare in città dopo gli attentati del 13 novembre. Alle 21,30 di quella sera, in mezzo alle chitarre distorte di una canzone intitolata «Kiss the Devil», bacia il diavolo, tre terroristi del commando dell’Isis, Ismael Omar Mostefaï, Samy Amimour e Foued Mohamed-Aggad, entrarono in platea con gli AK-47, un fucile a pompa, alcune bombe a mano e le cinture esplosive. Tre mesi dopo, il locale della carneficina è ancora sotto sequestro. Novanta morti. L’Olympia va benissimo per ricominciare. 
Un pezzo di città, fra la Madeleine e il Museo del Louvre, è completamente isolato dalla polizia. Ci vogliono cinque controlli prima di entrare, uno con il metal detector. In coda ci sono sedie a rotelle, fidanzati che non parlano e si tengono per mano, c’è la signora Patricia Correa venuta in ricordo della figlia Precilia, che è morta a fianco del fidanzato Manu, ed è stata sepolta a Lisbona in una bara bianca. C’è il sopravvissuto Guillaume Munier, ma ancora non ha deciso se entrare, e a vederlo così tormentato davvero non sapresti cosa consigliargli. C’è Samuel Charon, questa volta accompagnato dalla moglie, che dice di avere molta paura: «Ma non dei terroristi. Ho paura delle troppe emozioni di questa notte». 
Ci sono due code, quella dei reduci e quella degli spettatori paganti. Tutti ricevono una mappa del teatro con le uscite di sicurezza, dove sono indicati anche i tre punti di soccorso. Il responsabile del servizio di sostegno psicologico è lo psichiatra Didier Cremniter: «Non mi sono mai trovato in una situazione del genere – dice – l’ultimo intervento con la mia équipe l’abbiamo fatto in un liceo, dopo il suicidio di un ragazzo. Ma credo che questo concerto rappresenti una grande opportunità per tutte le vittime del Bataclan. È un modo per entrare in una fase nuova e superare il trauma». 
Il trauma è ovunque, così forte che non puoi neppure avvicinarti a quel padre con la birra in mano, schiacciato contro il muro a dieci metri dal palco. C’è un ragazzino con i capelli rasta, le stampelle e il vuoto intorno. Ognuno ha la sua storia, i suoi fantasmi, il ricordo di un attimo preciso. «Siamo corsi via, ma mentre lo facevamo c’erano dei ragazzi a terra fra i nostri piedi», dice adesso la signora Maria Moore. Sta abbracciando Matt McJunkins il bassista degli Eagles of Death Metal, quando mancano venti minuti all’inizio del concerto. Non hanno voluto telecamere, non vogliono fotografie, neppure domande, perché questa è una specie di seduta psicanalitica collettiva. O forse una preghiera. «So bene che questa sera potremmo essere tutti molti tristi», dice il batterista Jiulian Dorio. «Ma cercheremo di suonare al meglio, con il massimo dell’amore e della riconoscenza per tutte queste persone che sono tornate ad ascoltarci. Sarà una celebrazione». 
Qualcuno in platea ha voglia di raccontare. La signora Emily Wino, per esempio, è inquieta: «È vero che hanno fatto i controlli, ma nessuno ha guardato nel mio beauty. Potrebbe esserci qualsiasi cosa qui dentro. Non mi sembra che si possa stare tranquilli neppure questa volta». Doversi guardare alle spalle. Perché è da laggiù che sono arrivati. Essere costretti a decifrare le intenzioni di tutti. Questo non è rock&roll. Serve tempo per guarire. C’è un ragazzo di New York, commesso in una libreria, che è venuto per testimoniare, sta piangendo anche lui: «Sono qui per solidarietà. Conosco bene questo tipo di tragedia». 
Non è un concerto. Non lo è se il cantante della band Jesse Hughes, prima di salire sul palco, ha dichiarato alla televisione I-Télé: «Sarà una terapia anche per me. So che molta gente non sarà d’accordo, ma se in Francia ci fosse la libertà di portare le armi, le cose il 13 Novembre sarebbero andate diversamente». 
«Pace e amore», chiede Thierry sotto al palco. Sono le 21.20 del 16 febbraio 2016. La stessa ora del Bataclan. Una vecchia canzone di Jaques Dutronc intitolata «Parigi si sveglia», annuncia l’inizio. Gli Eagels of Death Metal salgono sul palco. Jesse Hughes ha un mantello da Babbo Natale, si mette al collo una bandiera francese. «Sono molto emozionato, aiutatemi a cantare», dice. Un minuto di silenzio. Poi musica, soltanto musica. Chitarre e lacrime. Nella rivendicazione farneticante degli attentati, ecco cos’era il Bataclan: «Centinaia di idolatri riuniti in un festa di perversione». È stata una notte piena di commozione, piena di vita, piena di gente. Parigi è sveglia, resiste.